23/12/2008
di Bruno MAGGIONI
Maria e Giuseppe non trovano posto all’albergo (l’evangelista sembra sottolineare che non c’era posto «per loro»: forse c’era posto per altri più ricchi, ma non per loro) e si rifugiano per la notte probabilmente in una piccola grotta scavata nel fianco della collina in vicinanza delle case. Già nel II secolo il martire Giustino, palestinese e pratico dei luoghi, parla di una «grotta vicino al villaggio». E qui nasce Gesù, che l’angelo annuncia ai pastori come «un Salvatore, che è il Messia, il Signore» (2,11).
Di notte, i pochi animali che le singole famiglie possedevano venivano fatti rientrare nelle stalle. I greggi più numerosi rimanevano però all’aperto, nella steppa, con alcuni pastori di guardia. Erano, questi, uomini che, secondo l’opinione comune, si trovavano ai gradini più bassi della stima sociale e religiosa: il nomadismo ispirava diffidenza, le condizioni di vita che imponeva non favorivano certo l’osservanza di tutte le purificazioni rituali, a cui scribi e farisei tenevano tanto, e i pastori erano, di conseguenza, considerati impuri, o quasi.
Ma è proprio ai pastori – per primi – che la nascita di Gesù viene annunciata e spiegata, nel suo significato universale, da «angeli» apparsi nella notte: «Non temete, vi annuncio una grande gioia per tutto il popolo: oggi è nato nella città di Davide un salvatore» (2,10-11). Annuncio commentato da un canto di pace: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (2,14). Che la lieta notizia sia annunciata ai pastori per primi non sorprende: è semplicemente una chiara anticipazione del futuro comportamento di Gesù che, frequentando poveri, pubblicani e peccatori, tanto avrebbe irritato i benpensanti del suo tempo.