Le comunità pastorali, che oggi in diocesi sono quasi una sessantina, non sono in assoluto una novità, ma come diceva l’Arcivescovo «si rifanno a un modello di presenza della Chiesa tra la gente che risale al Medioevo ed è basato sulla “pieve”, cioè su una forma di organizzazione pastorale del territorio diocesano incentrata su una “chiesa matrice battesimale”, servita da un clero collegiale, cui è affidata la cura pastorale del distretto».
Oggi questa antica impostazione viene rilanciata e definita più esplicitamente “pastorale d’insieme”, proprio per indicare una maggiore collaborazione, riscoprendo anche «il ruolo attivo e responsabile dei fedeli laici». D’altra parte, diceva nell’omelia del Giovedì Santo del scorso anno, «è evidente che il progetto delle comunità pastorali non potrà giungere a compimento fino a quando interesserà soltanto noi presbiteri e diaconi, e non invece anche i laici e i consacrati».
Questo lavoro collegiale nasconde in realtà quella che il cardinale Tettamanzi definisce «una strategia per la missione», che significa «operare delle scelte prudenti e ponderate e insieme coraggiose e audaci, a partire dalle indicazioni del Vangelo e in vista di un rinnovato impegno per l’annuncio e la testimonianza del Signore risorto».
Non ha dubbi infatti l’Arcivescovo e lo dice chiaramente: «Se le Comunità pastorali dovessero servire solo a “risparmiare” qualche prete o ad “aprire” qualche spazio in più di ministerialità ai laici, ma non dovessero portare a un vero, costante e concreto rinnovamento missionario, occorrerebbe riconoscerne e dichiararne il fallimento».