23/12/2008
di Angelo CASATI
I presepi fanno racconto nelle case. Un racconto fatto di silenzio. Non so se ti è mai capitato, passando da una stanza all’altra, di fermarti come sospeso ad ascoltarne la voce. Fatta di silenzio. Li sentirai mormorare all’imbrunire, quando al buio, nella veglia di fioche luci, danno inizio al brusio, all’angolo della casa. Là dove qualcuno ha ricostruito, dopo millenni, l’evento.
Il brusio racconta un bambino. E non so se ancora fa sorpresa che al centro dell’evento ci sia un bambino: le luci, i personaggi, le stradine del presepe vanno in quella direzione, verso un bambino. Anche le statuine più immobili sembrano camminare, camminare verso di lui. Sono ferme e vanno. Così anche noi. Anche noi dopo duemila anni, se ci è rimasto un frugolo di emozione. L’emozione dell’inimmaginabile. Inimmaginabile che il figlio dell’Altissimo sia nella carne di un bambino. Di un neonato.
Il Vangelo dà poche, scarne notizie di quella nascita fuori paese e fuori casa e del viaggio che l’aveva preceduta. Lascia a noi immaginare gli sguardi, di tenerezza e di custodia, di Giuseppe, che contava, quasi affrettandole nel cuore, le ore che ancora mancavano alla salita a Betlemme. Spiava in silenzio l’inarcarsi del corpo della donna. Forse gli uscì un respiro a fine viaggio.
«Ora avvenne – Vangelo di Luca – che mentre essi erano là si compirono per lei i giorni in cui doveva partorire, e partorì il suo figlio unigenito: e lo avvolse in fasce e lo adagiò in una mangiatoia perché non c’era posto per loro nell’alloggio». Lo guardò, Maria, ora che le era sgusciato dal grembo, dopo nove mesi. Non le era stato risparmiato un giorno che è uno dei nove mesi, non sconti di fatica a motivo che era il figlio dell’Altissimo.
Lo guardò, simile in tutto ai neonati del suo paese, le chiedeva il seno per il latte. Era il figlio dell’Altissimo e le stava nello spazio piccolo e ricurvo di due mani. Stava in quelle fasce, pochi centimetri di tela, che a colpi d’emozione ella gli aveva preparato, ed era il figlio dell’Altissimo. Lo adagiò nella mangiatoia. Ci stava. Ed era il figlio dell’Altissimo.
Ebbene, che cosa leggiamo in questa carne, piccola, tenera, indifesa di un neonato, uscita dai nove mesi? Che cosa vediamo in questa carne abitata dalla luce? Vediamo lo sguardo di Dio. Ci sentiamo guardati. E non dall’alto in basso, con uno sguardo che ti incenerisce. La gloria di Dio riposa in una mangiatoia e ti senti guardato da Dio. Ti senti guardato dalla benevolenza.
Quando diciamo “bambino” diciamo questo stupore. Lo stupore di un paradosso, che appartiene a Dio: l’infinito nel piccolo. Luca, l’evangelista, mette a confronto due eventi: «Avvenne che in quei giorni uscì un editto da parte di Cesare Augusto di censire tutta la terra abitata…» e «Avvenne che si compirono per lei i giorni in cui doveva partorire…».
Fu censimento. Censimento, ma senza riconoscimento. D’istinto mi viene da pensare a colui che a Betlemme in quei giorni era deputato a censire. Annotava nomi e nomi. Quel giorno annotò distrattamente, come uno dei tanti, il nome di un bambino: si chiamava come tanti altri, Gesù. Un nome fra i tanti, e non lo sfiorò neppure lontanamente il sospetto che quello fosse il nome di Dio, il Dio con noi, il suo nome mescolato ai nostri nomi. Che cosa vuoi che conti un bambino?
È un miracolo il Dio neonato. Ma è anche una rivoluzione. Noi sogniamo di elevarci, di allargarci, di prendere spazio. Questa nascita è il miracolo della restrizione: un Dio che si accorcia, un Dio che tace, un Dio debole.
«Questo è il segno». A perpetua memoria, per noi sedotti dal luccichio di altri segni. «Questo per voi il segno», dicono gli angeli ai pastori. Come a dire: non sbagliate segno di riconoscimento. Dio è lì e non altrove. Dove è finito Dio? Dove si nasconde? «Troverete un bimbo, avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». Lezione, per tutti quelli che cercano il Salvatore.
È in controtendenza, Dio: è nel piccolo, nell’infinitamente piccolo. Guardate il piccolo, il fragile, il disprezzato. Carica rivoluzionaria di questo evento in una società in cui vali non per la tua carne di uomo, ma perché hai un titolo, perché hai una laurea, perché sei apparso in televisione, perché hai fatto carriera, perché sai gridare.
Che forza dirompente ha il Natale, quello vero, che dirotta l’attenzione sul piccolo. Sul bambino che non ha altro titolo che quello di essere un umano, un cucciolo di uomo. E basta questo perché a lui sia dovuta tutta la dignità, tutto il nostro rispetto. Non occorre altro, dal giorno in cui Dio ha messo la sua gloria in un bambino, avvolto in fasce, in una mangiatoia: «Questo il segno!». A memoria.