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Sirio 18 - 24 novembre 2024
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Dialogo in Cattedra

Un dibattito tra cristiani, ebrei, musulmani e laici sulla responsabilità delle religioni per dare nuova linfa a una democrazia sofferente. Ne parliamo con la conduttrice, Maria Cristina Bartolomei

6 Ottobre 2008

06/10/2008

di Pino NARDI

Una sana laicità, che emerga rispetto a laicismo e clericalismo, e l’apporto che a una democrazia in sofferenza possono dare le grandi religioni. È questo il senso della nuova edizione della Cattedra del dialogo, che partirà lunedì 13 ottobre alle 20.45 al San Fedele. Ne parliamo con Maria Cristina Bartolomei, docente di filosofia morale alla Statale di Milano, conduttrice del ciclo di incontri.

Qual è l’obiettivo della Cattedra del dialogo e perché avete scelto il tema “Democrazia alle corde?”?
È un’iniziativa che si ripete da diversi anni e in qualche modo, secondo me, è un’altra gemmazione dell’antica Cattedra dei non credenti del cardinale Martini, pur con una sua peculiarità. Il tratto di stile analogo è il dialogo che va in cattedra, diventa l’attore attraverso coloro che intervengono. Quest’anno il tema è particolarmente spinoso: va bene cercare quello che unisce e non quello che divide, ma vanno affrontati anche i problemi aperti. Dobbiamo trovare i punti controversi non solo tra le varie prospettive religiose, ma anche con la cultura laica. Che la democrazia sia alle corde è una percezione diffusa. Ci sono tanti segnali, come la minore passione di partecipazione attiva della cittadinanza. Questo è il segno di una democrazia che stenta, che non è rigogliosa, perché là dove lo è, la partecipazione è il suo cuore stesso.

In questo contesto si parla della responsabilità delle religioni…
La domanda che ci poniamo è se le religioni sono buone interlocutrici della democrazia, se hanno un compito positivo non solo oggi, ma anche in base alla tradizione. Le grandi religioni, proprio per i loro valori fondanti che rendono coesa una società, come la centralità della dignità umana e della sua libertà, di per sé sono interlocutrici privilegiati per le democrazie. Si tratta allora di entrare con garbo nel nodo della possibile contraddizione tra una buona interlocuzione tra religione e democrazia ed eventuali risvolti non fruttuosi e problematici. Si tenga conto che si parla del cristianesimo, ma anche dell’ebraismo e dell’islam. Il primo incontro con Gustavo Zagrebelsky mette a fuoco in quale senso si può dire che la democrazia ha luoghi di sofferenza e come le religioni possono essere fattori che operano in un senso o in un altro. Poi ci sono le due serate con le voci ebraica e islamica, quella finale sul cristianesimo. È una riflessione che non si sottrae all’incontro con le eventuali spine. D’altra parte si cresce riflettendo. Se posso usare una metafora culinaria, vogliamo trovare i nodi della crema o della polenta e contribuire a scioglierli.

Collegati sono le questioni della laicità e del ruolo pubblico delle religioni…
Il rapporto religione-democrazia è il punto finale di una serie di rapporti che si sgranano secondo i due temi che lei ha indicato. Certo, questi sono argomenti di estremo interesse nell’Europea occidentale. Ormai nel nostro mondo nessuno si oppone alla laicità, tutti sono favorevoli. Questa è innanzitutto una conquista che va benissimo. Tuttavia si intende la laicità in tanti modi diversi, alcuni dei quali sono variazioni sul tema e altri non sono proprio facilmente compatibili. In particolare i vari modi di intendere il ruolo pubblico delle religioni.

E qui si scontrano laicismo e clericalismo…
Infatti, questo è il punto. La laicità si apre uno spazio virtuale spingendo ai suoi lati clericalismo e laicismo; si può dilatare se si restringono questi due fenomeni, per evitare che diventi un “conflitto a fuoco”. Esistono diversi modelli: quello americano, completamente diverso dagli europei, perché negli Usa c’è un atteggiamento più benevolo sulla presenza pubblica, dall’altro c’è però una laicità rigorosissima per cui nessuna autorità di qualche gruppo religioso si permetterebbe mai di dire mezza parola sui temi politici. Nei modelli europei c’è una grande varietà: da quello francese ad altri che sono meno profilati. Il punto vero di riflessione è se si interpreta lo spazio pubblico come uno spazio in cui più che legittimamente tutti gli attori nella società si presentano, lottizzandolo tra di loro oppure sgomitando chi ne prende di più. Questo è un modello che rischia sempre di insinuarsi, anche sotto la migliore buona volontà. Secondo un altro modello, è uno spazio in cui tutti si entra non facendo finta di non avere prospettive, orientamenti e identità, ma lo si fa in nome di quello che accomuna. Nel nostro caso intendo i valori della Costituzione: ognuno cerca di promuoverli apportando quello che il proprio patrimonio può dare, aiutando a valorizzarli, ma non cercando di prendersi un “pezzo di terreno” di più in nome della propria identità.

Quindi bisogna evitare la logica lobbistica…
Esattamente, invece puntare a una logica di armonia e di interazione. Bisogna ricordarsi che il dialogo veramente buono è un colloquio: non sono due che fanno il ping pong, ma sono due o più che convergono, che hanno un qualcosa che riconoscono come tessuto comune e al quale ognuno apporta la ricchezza della sua prospettiva, della sua tradizione.

Il rapporto con l’islam è spesso conflittuale: è dunque significativa la vostra scelta di ragionare anche sull’apporto che può dare alla democrazia…
Vogliamo contribuire a far maturare questo aspetto, valorizzando quello che già esiste. Spesso abbiamo immagini molto sommarie, dominate da alcune tendenze emergenti fondamentaliste. Ma esiste anche altro: abbiamo invitato a parlare una persona musulmana, che ha anche studiato teologia alla Gregoriana: ha detto che questo l’ha aiutata moltissimo a capire di più la sua fede. Ora tiene corsi di islamismo alla Gregoriana. Questa persona rappresenta un islam credente convinto, ma certo non fondamentalista, che bisogna far emergere e aiutare a crescere.