8’.46’’ è il simbolo del nuovo movimento per i diritti civili. 8’46’’ Il tempo in cui il collo di George Floyd è rimasto sotto il ginocchio del poliziotto Derek Chauvin. 8’46’’ sono bastati a uomo bianco per togliere il respiro e la vita a un uomo afro-americano in una strada di Minneapolis.
Il feretro di George Floyd è tornato a Houston, la città dove si era trasferito da giovane e che era diventata la sua casa. Qui gli sarà reso l’ultimo omaggio, dopo quelli tributategli nella Carolina del Nord dove era nato e a Minneapolis, il luogo della morte. Qui durante la cerimonia si sono alternati deputati, cantanti, attori, Martin Luther King III, il reverendo Jesse Jackson, il capo della polizia di Minneapolis che si inginocchiato al passaggio del feretro e tanti semplici afro-americani e bianchi che, al cospetto di quella bara, si sono inginocchiati e hanno pianto, come il sindaco della città, implorando riconciliazione, impegnandosi per la fine del razzismo e delle violenze ingiuste.
Lo stesso è accaduto in centinaia di città nel mondo, scese in piazza per guardare in faccia le proprie discriminazioni, disuguaglianze, ingiustizie, ispirate tutte da quest’uomo afro-americano, morto dopo aver implorato aria, respiro, vita da chi avrebbe dovuto proteggerlo.
Negli Usa oltre 350 città anche dell’America rurale hanno protestato non solo occupando piazze, ma sdraiandosi sull’asfalto per mimare arresti e omicidi. Quest’ondata globale di proteste ha dato coraggio anche alle piccole comunità in minoranza di alzare la voce e farsi sentire, anche se dall’altra parte hanno trovato ancora ostilità. Eppure è innegabile che per due settimane di fila ci si è radunati e si è marciato contro la violenza incontrollata sulle vite delle persone di colore e oggi il movimento Black Lives Matter è diventato transnazionale e con un appeal universale.
Intanto, lontano dalle piazze mediatiche, centinaia di volontari sono scesi nel centro di Minneapolis armati di scope e sacchi della spazzatura per ripulire dagli atti vandalici, dalle rovine degli incendi, dai resti delle proteste. Alcuni attivisti senza loghi particolari hanno cominciato a distribuire cibo nell’area che ha visto i negozi di alimentari chiusi a causa delle distruzioni e delle rivolte.
L’ex hotel Sheraton, danneggiato dalla rivolta, è stato trasformato da Joe Kruse, rappresentante dei lavoratori cattolici e da un gruppo di volontari in un rifugio per senzatetto, il gruppo più vulnerabile alle perquisizioni e ai fermi, ma anche alle rivolte incontrollate. Donazioni per riarredare il locale sono arrivate dai sobborghi e dalle città vicine grazie al tam tam dei social media. «Stiamo costruendo qualcosa di buono qui – ha detto Ellen Koneck al National Catholic Reporter -. Sembra disordinato in questo momento, ma stiamo costruendo qualcosa di buono. Nessuno ha dubbi su questo». In fondo tutti hanno a cuore il bene della comunità, oltre alle rivolte che l’hanno incendiata e insanguinata. «È un nuovo modo di agire. Piuttosto che semplicemente aspettare, implorare e sperare. Abbiamo preso l’iniziativa e deciso di farlo accadere», ha continuato Kruse. Allo stesso tempo, altre organizzazioni impegnate nella giustizia sociale hanno raccolto ben 2 milioni e mezzo di dollari per aiutare la ricostruzione delle imprese danneggiate dalle rivolte, secondo il giornale locale Star Tribune.
L’arcivescovo di Minneapolis Bernard Hebda, mostra comprensione per la rabbia che ha incendiato la città «soprattutto perché non è la prima volta che la nostra comunità sperimenta qualcosa del genere, e infatti negli ultimi cinque anni la polizia locale è stata coinvolta in altre morti e anche se mi piacerebbe dire che non ha posto nella Chiesa, sappiamo che portiamo anche lì la nostra umanità e che affrontare questa piaga non sarà un gioco da ragazzi». Nella diocesi intanto si sono cominciate conversazioni aperte ispirate alla lettere sul razzismo della Conferenza episcopale americana e una maggiore promozione della leadership afro-americana nelle comunità.