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Ccce

Un caso serio in Europa

Con le loro sentenze i giudici creano “nuovi diritti” e mutano l’antropologia.
La riflessione del giurista Andrea Pin (Università di Padova)

di Gianni BORSA

17 Giugno 2013

«La battaglia sui diritti corrisponde a un impegno sul soggetto-uomo. Il diritto non può correggere il cuore dell’uomo: perciò ogni tentativo di cambiare la vita, individuale e associata, senza passare attraverso la persona, le persone, sembra destinato a fallire. Del resto le leggi non possono nemmeno estirpare il cuore dall’uomo. Ed è perciò che dall’uomo si può ripartire». Non ci sono solo codici e sentenze nella riflessione che Andrea Pin, giurista dell’Università di Padova, studioso di diritto costituzionale, dedica ai “nuovi diritti” che vanno imponendosi nei Paesi del vecchio continente. Vi si riscontra una profonda attenzione ai mutamenti culturali, etici, sociali, che fanno da sfondo all’epoca contemporanea. Riflessioni che Pin ha condiviso in questi giorni con i portavoce delle Conferenze episcopali europee, riuniti dal Ccee (Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa) a Bucarest.

Professore, anzitutto: in che senso i “nuovi diritti”, fra cui quelli attinenti la sfera della bioetica e delle relazioni familiari e affettive, si vanno moltiplicando?

«Partiamo da una constatazione. Come è stato detto all’incontro del Ccee, le sfere dell’economia, della vita sociale, della politica, sono in rapida trasformazione. Al loro interno, i comportamenti dei singoli e della società nel suo insieme, così come la scienza, la tecnica, si aprono a nuovi spazi, nuove realtà. La tecnica, ad esempio, rende possibile ciò che era impossibile e, parimenti, il diritto rende lecito quel che era fino a ieri impensabile. La teoria della massima espansione dei diritti, che sta facendo breccia in diversi Stati europei, sostiene questi fenomeni. Se una soluzione, una procedura, un comportamento divengono possibili, magari generalmente accettati, devono trovare – si pensa – un’accoglienza giuridica. In pratica dove la scienza avanza, dove la società cambia, il diritto deve, se non arretrare, regolare queste ipotesi. Ovviamente, così procedendo, non viene scompaginato solo il panorama dei diritti, ma anche la loro gerarchia».

Così i giudici assumono un rilievo sempre più importante nella vita collettiva?

“Certamente. Possiamo dire che, dinanzi a un arretramento della politica, che dovrebbe regolare i rapporti sociali mediante le leggi, si instaura una sorta di supplenza da parte delle Corti. Le quali, però, affrontano le novità con i mezzi a disposizione, ossia le sentenze. Riscontriamo, in effetti, un grande cambiamento: uno spostamento dell’asse dai Parlamenti alle aule giudiziarie; queste non solo individuano i diritti, ma li normano e li qualificano come fondamentali. Tutto ciò avviene con dei costi. Gli argomenti che valgono di fronte alle Corti non valgono di fronte ai Parlamenti, e viceversa: motivazioni di carattere antropologico o di giustizia sociale trovano meno spazio. Insomma, la politica dovrebbe considerare il “globale”, mentre il giudice si occupa maggiormente di diritti, siano essi individuali o collettivi, senza collocare le sue decisioni in un quadro complessivo come il decisore politico può fare».

Ma in questo modo si crea un cortocircuito tra chi dovrebbe fare le leggi e chi le dovrebbe applicare.

«Applicare ma anche monitorare, nel senso di valutarne la compatibilità con i principi fondanti delle democrazie e delle libertà. Qui sta l’ambiguità di fondo. Il giudice ha comprensibilmente assunto un ruolo sempre maggiore, grazie alla sua reputazione. Nella moderna cultura europea il potere giudiziario è stato costituito come contropotere, o come controllore, di quello politico. Del resto i diritti fondamentali storicamente sono stati calpestati da legislatori e da governi molto più spesso che dai membri del potere giudiziario… Ma questo non basta a sostituire il legislatore col giudice: la sostenibilità dei diritti, dei vecchi come dei nuovi, è complessiva, attiene cioè a equilibri sociali ampi, a un quadro generale dal quale non si può prescindere. Questa consapevolezza però è stata smarrita anche dal legislatore. Facciamo un paio di esempi: le leggi sull’immigrazione sono state ritoccate in ogni legislatura parlamentare, creando un collage di spezzoni separati non sempre coerenti fra loro e così diventa difficile regolare la materia e tutelare i diritti correlati. Lo stesso potremmo dire delle riforme della scuola che si sono accavallate l’una sull’altra, a danno del diritto all’istruzione. Altri esempi sembrano ora avanzare sul versante del diritto familiare oppure in relazione all’inizio e alla fine della vita. Il cortocircuito cui lei fa riferimento può non di meno riguardare l’impatto dei nuovi diritti sulle istanze della coscienza oppure sulle esperienze religiose».

L’espansione dei diritti – a Bucarest si è parlato, con preoccupazione, di matrimoni omosessuali, di aborto ed eutanasia, di fecondazione eterologa – non corrisponde a una trasformazione, se così possiamo dire, della mentalità corrente, del costume?

«Direi che l’espansione dei diritti ha riferimenti ideologici e di natura morale, e va ricollegata a un forte individualismo antropologico, al concetto di autodeterminazione, per cui ciascuno si mette al centro dell’universo».

E la politica, dove si colloca?

«Mi pare si possa affermare che l’agenda politica attuale, pur sollecitata da sfide grandi e urgenti, come la crisi economica, abbia un’agenda piuttosto angusta, senza una prospettiva di lungo respiro. E ciò vale anche per il campo dei diritti. Eppure occorre muoversi. Ritengo sia indispensabile allargare gli orizzonti, proporre letture degli eventi e dei cambiamenti in corso illuminando le zone d’ombra, mettendo allo scoperto l’impatto che l’evoluzione del diritto e dell’economia hanno sulla democrazia, sulla società, sulla solidarietà, sulla comprensione stessa di istituzioni sociali come la famiglia. Bisogna scendere nel campo del realismo… Occorre rendersi conto che taluni “nuovi diritti” sono calibrati su un’idea di uomo piegato su se stesso, autoreferenziale. In questo senso occorre tornare a una valorizzazione del soggetto, nella sua dimensione individuale e comunitaria, affidandosi a un’antropologia positiva. Così possiamo dire che dobbiamo ripartire dall’uomo, dal suo cuore, dalla sua coscienza».