Per i bambini della fascia di età superiore, 3-6 anni, il fenomeno dell’esclusione dal mondo sociale ha significato sofferenza, data da una non comprensibile lontananza dal mondo di amicizie e affetti costituito dalla scuola d’infanzia.
Sono oltre 1,2 milioni i bambini che in Italia frequentano la scuola dell’infanzia, un luogo dove si realizzano percorsi necessari alla loro formazione e che li accompagna a raggiungere importanti traguardi di crescita. In una metropoli come Milano, i nidi e le scuole costituiscono anche la possibilità per i genitori di creare reti sociali tra famiglie e di sentirsi meno soli in quelle fatiche di crescita che, se non condivise, diventano macigni. Nell’incontro con gli altri i bambini scoprono la potenzialità delle relazioni, sperimentano stili differenti di approccio alle cose, incontrano adulti che possono compensare in modo positivo vuoti familiari, fanno esperienze pregnanti per lo sviluppo cognitivo, motorio e psichico.
Hanno la possibilità di conoscere il valore e il significato delle emozioni e trovano accoglienza alle proprie, anche a quelle negative, magari legate a eventi familiari più o meno prevedibili (ad esempio, i sentimenti di frustrazione o gelosia conseguenti la nascita di fratelli o sorelle, il lutto per la perdita di un nonno, fino a casi sociali gravi, dove la funzione della scuola può davvero essere riparatrice di vissuti drammatici).
Per i bambini dai 3 ai 6 anni, dunque, i primi giorni di assenza dalla scuola sono stati vissuti come un’occasione per godersi la mamma e il papà a tempo pieno, per trascorrere le giornate in un’anarchia di orari, dove il gioco individuale o con i propri fratelli non conoscesse soluzioni di continuità, in quella piacevole sensazione che si fossero improvvisamente moltiplicati nel calendario i sabati e le domeniche, giorni in cui si può dormire a piacimento senza obblighi da rispettare, una sorta di lungo tempo di vacanza da dedicare ai giochi casalinghi. In questa fase, infatti, il bambino consolida il senso del sé e l’appartenenza alla sua famiglia è simbolicamente molto forte proprio nell’attaccamento alla casa e a tutto ciò che la rende un luogo sicuro, in cui sentirsi padrone del proprio regno.
Col passare dei giorni, però, essi hanno realizzato che c’era qualcosa di straordinario in corso, hanno chiesto spiegazioni sul ritornare all’asilo e a scuola, sul perché non si potesse uscire da casa, hanno manifestato il desiderio di vedere amici e maestre. Le risposte, nei casi più fortunati, sono state date dai genitori con parole adeguate, concordate anche con gli insegnanti, per spiegare il coronavirus e cosa stava succedendo alle persone.
Le spiegazioni razionali però, per quanto appropriate, si sono accompagnate alle paure degli adulti e soprattutto hanno condotto anche i bambini a essere parte di una realtà incomprensibile, non a loro misura. Una realtà che è diventata gravosa per tutti, nella misura in cui le domande dei più piccoli non hanno trovato soluzioni convincenti da parte degli adulti, impreparati a dover spiegare ai figli l’inaccettabile: la privazione delle libertà personali di uscire, di frequentare amici e parenti, di fare persino una passeggiata nel proprio quartiere.
Sempre più bambini hanno manifestato forti crisi di rabbia, pianti improvvisi, silenzi prolungati, incubi notturni. A loro beneficio è venuto in soccorso il pensiero magico, che con forza li porta altrove, in mondi fantastici e lontani in cui vivere avventure. Purtroppo, il pensiero magico si rivela un’arma a doppio taglio, poiché fortemente legato all’onnipotenza del bambino, cioè a quella struttura del pensiero che lo rende “burattinaio” di ciò che accade intorno a sé. La conseguenza è che molti si sono fatti carico, a livello inconscio, degli eventi drammatici che li hanno circondati, della chiusura delle scuole o delle preoccupazioni dei genitori, persino delle malattie dei nonni, accusando forti sensi di colpa, la cui manifestazione psicosomatica ha aggiunto fatiche anche agli adulti.
I disegni alternano scenari di vita quotidiana prima del lockdown ad altri dove il virus è protagonista. Si passa dalle realizzazioni del mondo che era e che i bambini vorrebbero fosse – la propria scuola dell’infanzia, gli amici del cuore, il parco giochi, i nonni, immagini di vita liete, gioiose – ad altri, abitati da mostri complessi che vengono sconfitti. In un certo senso, la maggioranza dei bambini esce vincente dalla prova della pandemia, proprio grazie all’abilità del pensiero creativo e soprattutto alla possibilità di credere che ciò che si immagina sia vero.
Un ulteriore tema che ha preoccupato i bambini di tutte le età è quello del passaggio di grado, dalla scuola dell’infanzia alla primaria e, poi, per i più grandi, alle medie e al liceo: in tutti i racconti emerge il senso di una perdita mai più recuperabile, quella di una transizione negata, di un percorso reciso e di un salto che sembra sempre di più un lancio nel vuoto.
Per i bambini della scuola dell’infanzia l’ultimo anno è particolarmente delicato poiché rappresenta il primo passaggio dal mondo del gioco a quello dell’istruzione formale, con l’assunzione di una serie di “obblighi”, come l’andare a scuola, lo stare seduti ai banchi per molte ore, le verifiche e i compiti. È un grande cambiamento, per molti versi anche discutibile, e certamente sentito dai bambini ben prima che si realizzi, poiché l’età in cui avviene collima con la maturazione della teoria della mente e con la competenza del bambino di fare analisi complesse, come quella di realizzare che essere i più grandi della scuola d’infanzia significa abbandonare quel luogo per entrare in un altro, che sarà distante da quanto sperimentato prima.
Proprio perché i bambini vivano bene il congedo dagli anni dell’infanzia, non c’è scuola che non organizzi una cerimonia di saluto, una festa dove celebrare i compagni che vanno, non c’è maestra che non si premuri di realizzare per loro doni da portare con sé a suggellare un percorso di anni. Ogni scuola, con le forme che preferisce, si fa carico di accompagnarli a far proprio quell’addio all’infanzia, agli anni in cui il gioco libero ha dominato le giornate, le ha rese feconde per se stessi e per gli altri.
Soprattutto, ogni insegnante si fa solitamente carico di collaborare con gli insegnanti che riceveranno i bambini alla scuola primaria per trasmettere, quando non è previsto condividere, informazioni che possano aiutare ad accoglierli al meglio. Nulla di tutto ciò ha potuto avvenire per questi bambini che si avviano a salutare i giorni dell’infanzia senza averla potuto vivere appieno.
L’impatto sulle famiglie già segnate dal disagio
Abbiamo parlato finora di bambini di famiglie che appartengono alla media, ovvero senza problematiche di rilievo se non quelle contingenti, ma dobbiamo tenere uno sguardo ampio sul fatto che ci sono situazioni e condizioni di vita che erano estremamente disagiate già prima di tutto questo, e che sono ulteriormente peggiorate.
Sono i bambini che hanno bisogno di assistenza specialistica quotidiana, come quelli affetti da autismo o altre patologie. Costoro hanno vissuto mesi di grave compromissione in assenza degli aiuti necessari. Sono i figli di padri e/o madri violenti, dove sappiamo che la violenza domestica sui bambini è aumentata del 20% a causa della clausura forzata.
Sono i bambini delle famiglie in povertà economica, il cui unico pasto quotidiano era garantito dalla mensa scolastica. Per questi bambini l’esclusione dalla vita scolastica ha significato una quotidianità di angoscia e l’amplificazione di sofferenze fin troppo trascurate. Bambini esclusi anche dalla possibilità di usufruire del contatto a distanza, attivato da molte maestre anche delle scuole d’infanzia, un palliativo che poco ha avuto a che fare con la didattica ma che ha rappresentato un tentativo comunque rispettabile di far sentire loro la vicinanza delle educatrici.
Sono stati troppi i bambini che non hanno potuto usufruire della didattica a distanza (Dad) per mancanza dei supporti tecnologici, un dato di fatto che ha contribuito ad allargare il solco della differenza culturale e a incentivare la dispersione scolastica, la cui percentuale, ancora troppo al di sopra dell’indice del 10% fissato a livello europeo, pone l’Italia tra gli ultimi quattro Paesi d’Europa (14,5%, Istat 2018).