La Gran Bretagna riesce sempre a stupire, spiazzare, irritare, il Vecchio Continente. Non di rado lo porta a interrogarsi, a riflettere. Così, mentre l’Europa comunitaria cerca un’intesa per superare la crisi economica e salvare, assieme alla Grecia, la moneta unica, il premier David Cameron fa un passo indietro rispetto al Trattato fiscal compact per il rigore di bilancio, che sarà firmato nel corso dell’Eurosummit del 1-2 marzo. Allo stesso tempo, proprio dall’Isola giunge, autorevole, una riflessione sul concetto di solidarietà che, dopo aver ispirato il processo d’integrazione europea all’indomani della seconda guerra mondiale, ora sembra appannarsi e lasciare il passo a calcoli monetari, interessi nazionali, euroscetticismi di ogni sorta.
Il 23 febbraio, con il titolo Europe says goodbye to solidarity, il Financial Times osservava onestamente che «alcune parole sono proprie degli europei del Continente»: infatti «è raro sentire britannici o americani parlare di solidarietà». Questo vocabolo «appartiene al monotono (così appare agli anglosassoni) consensualismo del capitalismo sociale e ai profeti dell’unità europea». Il giornale della City proseguiva con un’analisi della dissoluzione della solidarietà dinanzi alla crisi finanziaria in cui è precipitata l’Europa da tre-quattro anni a questa parte. L’Unione europea, figlia della Cee nata dai “sogni” dei padri fondatori, sta tentando – è questo il punto evidenziato – di rintuzzare gli attacchi degli speculatori e delle agenzie di rating, cerca di costruire una governance economica condivisa, ma fatica a realizzare un compiuto progetto politico che comprenda in sé sia i benefici che i costi di una vera integrazione solidale. Perché – si domandano per esempio tedeschi, olandesi, finlandesi – qualcun altro, che non siano i greci, debba pagare il conto del malgoverno greco?
Una risposta a tale domanda la si trova solo guardando oltre l’oggi, affondando i piedi nella storia e sollevando lo sguardo al futuro: la solidarietà – in un legame inscindibile con il rigore e il buon governo – è un’“arma di pace” che l’economia europea, sempre più integrata, deve far propria nell’era della competizione mondiale. Lo spiegano bene anche le colonne del Ft: «Ci sono ancora moltissime ragioni per cui le nazioni europee hanno interesse a collaborare tra loro. La più ovvia è la necessità di aver voce in un mondo che appartiene sempre più a qualcun altro. Germania, Francia e Regno Unito sono troppo piccole per questo mondo».
A questo punto segue un’annotazione davvero interessante, che prende le mosse da un recente studio del think tank parigino Notre Europe: «La solidarietà può essere di due tipi. C’è la semplice collaborazione di compromesso – una polizza assicurativa congiunta contro l’eventualità di questa o quella calamità – e c’è l’interesse personale illuminato che porta i governi a far coincidere gli obiettivi nazionali in una strategia condivisa e sostenuta di integrazione. L’Unione europea è stata costruita sul secondo tipo di solidarietà». D’altro canto, la solidarietà «non era un ideale astratto di sognatori federalisti. Era parte integrante di un pragmatico calcolo degli interessi. Permise alla Francia di affermare la propria leadership politica e alla Germania di ricostruire la propria economia e mantenere viva la prospettiva della riunificazione, mentre l’Italia poté aspirare alla modernizzazione e gli Stati più piccoli riuscirono a garantirsi voce in capitolo negli affari del continente». Una convergenza in grado di far leva su valori nobili e alti (difendere la pace dalle minacce della guerra), ma anche sull’incontro di interessi nazionali differenti.
Tutti argomenti, questi, che tornano alla ribalta nel momento in cui traballa l’espressione più evidente e concreta del progetto europeo: la moneta unica. Di fronte al rischio dell’implosione dell’euro e del grande disegno che gli sta alle spalle, la «solidarietà di compromesso» – come la chiama il Financial Times -, quella basata solo sul pareggio degli interessi di parte, non è sufficiente. «Questo non basta a spiegare perché i contribuenti del Nord Europa dovrebbero pagare i debiti del Sud Europa, o perché questi ultimi dovrebbero considerare le penose riforme come un’opportunità più che un castigo», sottolinea ancora il quotidiano britannico.
Il quale ha centrato il nocciolo del problema: ci sono dei momenti in cui i meri calcoli egoistici mettono a repentaglio lo sviluppo materiale, la crescita economica, un lungimirante progetto politico, il convergere pacifico di popoli e nazioni tanto diversi. Chissà se i 27 Capi di Stato e di Governo Ue leggono, non acriticamente, il Financial Times…