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Sirio 11 - 17 novembre 2024
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Il caso

Turati (Cattolica): «Sanità, un dibattito su come spendere le risorse»

Il docente di Scienza delle Finanze: «Nessuno è contrario ad aumentare la spesa per la sanità pubblica: dovremmo attivare processi di revisione che ci consentano di spendere meglio»

di Alberto BAVIERA Agensir

8 Aprile 2024
Agenzia Fotogramma

«Dal punto di vista finanziario non si può dire che si sia tagliato. Non è discutendo se la spesa in termini reali, scontando l’inflazione, sia più o meno quella del passato che risolviamo i problemi. Quello che mi sembra continui a mancare è il dibattito su cosa si vuole davvero fare con le risorse che abbiamo». Così Gilberto Turati, professore ordinario di Scienza delle Finanze all’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove coordina la laurea magistrale in Management dei Servizi e tiene seminari nell’ambito dei programmi di formazione dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi sanitari (Altems), commenta il contenuto dell’appello diffuso nei giorni scorsi da quattordici personalità del mondo della scienza e della ricerca a difesa del Servizio sanitario nazionale.

Professore, partiamo dall’aspetto finanziario. Vengono chieste più risorse per salvare il Servizio sanitario nazionale…
La prima questione che viene posta è quella del sottofinanziamento al Ssn, al quale si prevede di destinare il 6,2% del Pil nel 2025, una percentuale inferiore a quella destinata alla sanità da altri Paesi europei come Francia e Germania. Posto che nessuno sarebbe contrario ad aumentare la spesa per la sanità pubblica, il tema è da dove si recuperano le risorse. Sarebbe interessante chiedere agli italiani se siano d’accordo ad introdurre qualche nuova imposta per questo fine. Oppure a tagliare qualche altra spesa o combattere seriamente l’evasione fiscale.

Tra gli interrogativi posti nell’appello ce n’è uno che riguarda modernità ed adeguatezza delle strutture. Cosa pensa?
I fondi per ammodernare le strutture e il loro parco tecnologico li ha previsti il Pnrr. La diatriba di questi giorni tra Governo e Regioni è proprio su questo; ed è giusto che si faccia chiarezza. Poi mi lasci dire che in alcuni casi è da 20 anni che si discute sulla realizzazione di qualche nuovo ospedale senza addivenire ad una conclusione; dobbiamo attenderne altri 20 perché inizi a muoversi qualcosa?

Altro punto messo in evidenza è quello della continuità assistenziale…
Sono ovviamente totalmente d’accordo che non sia più procrastinabile la realizzazione di una continuità assistenziale tra ospedale e cure territoriali e domiciliari; ma da quanti anni ci stiamo dicendo che serve migliorare i servizi territoriali? Il “decreto Balduzzi” è una riforma del 2012: perché non ci siamo ancora riusciti? È un problema di risorse, di organizzazione o di volontà politica? Le categorie che saranno inevitabilmente toccate da queste riforme sono d’accordo a procedere in questa direzione? Perché, se non sono d’accordo diventa difficile. I medici di base accettano la sfida di essere i protagonisti della sanità territoriale e sono pronti a popolare le Case della comunità?

Nell’appello si afferma che «l’autonomia differenziata rischia di ampliare il divario tra Nord e Sud d’Italia in termini di diritto alla salute». Sarà così?
Penso che il problema dell’autonomia differenziata sia soprattutto quello di una possibile confusione normativa, di un Paese “arlecchino” con venti autonomie speciali. Per come è stata disegnata nelle ultime versioni del decreto, rischi che il Paese si disgreghi sembrano non vedersene, alla luce del fatto che la partita finanziaria è fortemente influenzata dall’assenza di qualsiasi imposta a livello locale e i soldi continuerà a darli lo Stato centrale. È una autonomia “monca”: a differenza di quanto avvenne negli anni Novanta, quando vennero introdotte Irap e addizionale Irpef per cercare di finanziare con imposte regionali il sistema, adesso di imposte locali non parla più nessuno. La mia impressione è che l’attivazione dell’autonomia differenziata sia stata la risposta delle Regioni (di alcune, in particolare, come Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto) rispetto all’inazione del governo nazionale di fronte alle loro richieste legittime (visto che rispettavano il mandato dei Lea e avevano i bilanci in ordine), per esempio in termini di personale.

Nel periodo della pandemia sembrava essere diventato patrimonio comune l’esigenza che sulla sanità bisognasse intervenire. Come Paese ce ne siamo già dimenticati?
Non credo che sia diffusa la percezione di alcune difficoltà del sistema, se non per la questione dei tempi di accesso. Aspetto sul quale tutti sono preoccupati. Però, mi lasci dire, sarebbe utile avere i dati che ci spiegano di quanto siamo in ritardo rispetto al recupero delle prestazioni perse con la pandemia. Quali sono i numeri? Qual è la reale situazione? Per esempio, magari in lista d’attesa figurano persone che nel frattempo sono decedute o hanno già comprato il servizio dal privato. Le Regioni hanno pulito le liste d’attesa? Perché se non abbiamo questa informazione è impossibile parlarne. La mia impressione è che ci siano molte differenze anche nella gestione di questo aspetto. Su tutte le altre questioni, forse c’è interesse solo se sono a rischio chiusura i piccoli ospedali che sono rischiosi. E al posto di arrabbiarsi, la gente dovrebbe chiedere alla politica di chiarire come fare a raggiungere l’ospedale più grande e più sicuro che non è più sotto casa ma magari in un’altra città.

Un’ultima domanda sulla qualità della spesa sanitaria. È efficace ed efficiente?
A parità di risorse, gli outcome in termini di raggiungimento dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) sono drammaticamente diversi. Segno che la spesa è gravata da inefficacia e inefficienza. Peraltro sono anni che sappiamo che alcune Regioni non ce la fanno ad arrivare ad un certo standard di servizio; la domanda è: quali sono le politiche che si vogliono mettere in atto per aiutare le Regioni che faticano a raggiungere gli standard? In altri termini: come riorganizzare i sistemi in quelle Regioni per consentire anche a queste di migliorare il servizio? Altro segno dell’inefficienza sono i pazienti che “scappano” da alcuni ospedali: cosa non funziona? E, soprattutto, in questi ospedali cosa si fa per evitare che la gente scappi? Se abbiamo una struttura che nessuno usa la Regione paga due volte: per gli stipendi dei dipendenti dell’ospedale che nessuno usa e per rimborsare l’ospedale fuori Regione che ha fornito davvero il servizio. Per queste ragioni dovremmo attivare processi di revisione della spesa che ci consentano di spendere meglio.