La notizia del suicidio del trapper Jordan Jeffrey Baby nel carcere di Pavia ha riacceso l’attenzione sulle condizioni della detenzione in Italia. Abbiamo chiesto un commento a don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano e fondatore dell’Associazione Kayros, che gestisce alcune comunità per minori in difficoltà: «Sicuramente è una vicenda in cui andranno accertate diverse cose. Quello che è evidente è che c’era una sofferenza psichica che accompagnava questo ragazzo, da prima della carcerazione», dice don Burgio.
Un disagio che trovava voce proprio nella sua musica trap, che a un orecchio adulto può sembrare brutale e sconcertante: «La trap è diventata per molti ragazzi quasi un percorso auto terapeutico, nelle loro “barre” (strofe, n.d.r.) sfogano frustrazioni e rabbia. È chiaro che queste canzoni hanno un tratto di realismo sconcertante. A noi, abituati a situazioni tranquille di vita, sembrano impensabili. Invece dobbiamo chiederci perché questi trapper abbiano potuto vivere infanzie così. Sono le diseguaglianze a generare questi vissuti e queste reazioni. E in metropoli come Milano, le sacche di povertà ci sono e sono importanti. Anche Jordan Jeffrey Baby aveva alle spalle aveva una storia difficile e diversi reati compiuti chiaramente sotto l’effetto di sostanze».
Secondo don Burgio è questo il mix terribile a cui il carcere non può offrire una risposta: disagio mentale e uso di droghe: «Oggi le carceri sono abitate per lo più da persone con disagio psichico o tossicodipendenti, che andrebbero curate, più che imprigionate. Il carcere non può assolvere a qualsiasi tipo di funzione, anche quelle che competono alla psichiatria. Senza contare il problema del sovraffollamento che continua a essere un’emergenza e che certo non aiuta in casi come questi».
C’è un altro tema, secondo don Burgio: «Se fosse vero che il ragazzo aveva denunciato una serie di abusi subiti nel carcere di Pavia, questo evidenzierebbe ancora una volta le difficoltà della magistratura a comprendere la realtà delle persone. Invece bisognerebbe fare con tutti quello che si fa con i minori: capire qual è la situazione che c’è dietro ad ogni caso».
Cosa che non è successa per Jordan Jeffrey Baby: «Se verrà accertato che davvero è stato rimandato in carcere, dalla comunità a cui era stato assegnato, per via di un cellulare e di un pacchetto di sigarette, sarebbe sconcertante. È vero che le comunità hanno i loro regolamenti, ma dobbiamo anche chiederci che senso hanno e a che scopo ci sono. Nel caso del cellulare, la ratio è evitare che il detenuto, comunicando con l’esterno, possa inquinare le prove. Ma nel caso di una pena definitiva, com’era quella di Jordan Jeffrey Baby, quali problemi poteva dare l’uso di un cellulare? Non la vedo una trasgressione così determinante da decidere di rimandarlo in carcere, per di più lo stesso nel quale il ragazzo aveva denunciato di aver subito abusi».