Sia chiaro che i tagli che saranno apportati dalla cosiddetta spending review sono più che altro una scrematura. O come altro definire una manovra che interessa lo 0,4% della spesa pubblica italiana?
Detto questo, dentro questa manovra ci sono cosette sacrosante; timidezze che rischiano di essere spazzate via dalle pressioni politiche (non tutte illogiche o corporative); e qualche sciocchezza anche notevole che può scaturire dall’impellenza di fare cassa in poco tempo.
La sanità è un esempio preclaro. I cento e passa miliardi di euro che costa ogni anno, sono perlopiù in mano alle Regioni. Ed è loro la competenza in materia, salvo certe linee generali che spettano allo Stato. Ci sarebbe da ragionare sui Livelli essenziali di assistenza, sulle prestazioni insomma che la sanità pubblica deve assolutamente dare ai cittadini o gratuitamente o dietro pagamento di un ticket.
Non sono qualche decina come ci verrebbe da supporre, sono oltre cinquemila: è chiaro che il concetto di salute da tutelare sia un po’ scappato di mano, nel corso degli anni. Da lì discendono strutture, spesa farmaceutica, personale, appalti vari… Se non si ripensa la spesa pubblica secondo logiche migliori di quelle attuali, è chiaro che poi – al momento di tagliare – lo si fa con criteri non sempre indovinati.
Chiudere tutti gli ospedali sotto i 120 posti letto era in parte giustissimo, in parte assurdo. Vanno chiusi tutti gli ospedali (119 o 121 posti letto che abbiano) privi degli spazi, delle tecnologie e del personale necessari per qualificare una struttura come ospedale: come luogo di cura per malati acuti.
Chi si farebbe operare in un nosocomio che non dispone di rianimazione, e nemmeno delle sacche di sangue per un’immediata trasfusione? Eppure questo capita quotidianamente in diverse strutture italiane.
Ci sono poi ospedali che hanno piccole dimensioni, ma sono all’avanguardia (ad esempio per patologie oncologiche); oppure strutture a servizio di territori particolarmente disagiati (si pensi alla montagna, ad esempio). Queste sono realtà da mantenere e potenziare, altro che tagliare!
Ma a questo punto, come dicevamo, l’intera questione-sanità va ripensata. Se il suo trasferimento alle Regioni è in buona parte fallito – troppi i casi di malagestione -, allora lo Stato si riappropri della materia e pianifichi “l’urbanistica” ospedaliera con logiche che guardano al futuro: pochi grandi ospedali di ottima qualità, molte piccole strutture sul territorio per le patologie non acute e per la cura dei lungodegenti.
Il discorso non cambia di molto per i tribunali. Averne uno sotto casa è molto comodo (avere qualsiasi cosa sotto casa è molto comodo), soprattutto per chi vi lavora. Ma può essere ormai insostenibile economicamente. Quindi qualcosa va fatto, ma cum grano salis.
Diceva l’altro giorno l’ex sindaco di Venezia, Massimo Cacciari: «Non chiediamoci se il Tribunale di Bassano del Grappa può confluire in quello veneziano, ma se quello di Venezia ha spazi e strutture per assorbirlo». Non li ha. Quindi, che si fa?
Insomma, non sono obiezioni per impedire, per frenare, per lasciare tutto com’è. Ma per evitare di fare norme che creino più danni che benefici, o che abbiano conseguenze mal valutate dalla fretta di far quadrare i conti. Come i nove miliardi di euro che costeranno i cosiddetti “esodati” dalla precipitosa riforma delle pensioni.
C’era bisogno di rastrellare 5-6 miliardi di euro per impedire l’aumento (stabilito per legge) dell’Iva. Bene. Non chiamiamola manovra ma spending review che sembra una cosa diversa. Bene. Se poi si vorrà veramente cambiare le cose in Italia, meglio affrontarle dalla testa e non dalla coda.
Ad esempio riformare la giustizia, che poi la logistica dei tribunali arriverà di conseguenza; cambiare la logica dei servizi che lo Stato dà ai suoi cittadini, che poi il personale e i mezzi saranno tarati alla bisogna. Insomma ci vuole ottima Politica all’altezza delle sfide che l’Italia ha di fronte, anche se l’Italia non ama affrontare le sfide se non nella logica del burrone dietro alle spalle. E anche così…