Dopo la triste sepoltura delle vittime (oltre un migliaio, tra cui centinaia di bambini), gli aiuti umanitari e la corsa contro il tempo per evitare epidemie e colera tra le 8mila persone sfollate, la pioggia non si ferma, con il rischio di altre alluvioni e frane devastanti, come quella che la notte del 14 agosto ha distrutto una intera collina nel sobborgo di Regent, a 15 miglia dal centro della capitale Freetown, in Sierra Leone. Un disastro naturale che anche questa volta vede l’uomo come corresponsabile, perché quella zona era stata completamente disboscata, con abusi edilizi e abitazioni illegali costruite senza un piano regolatore, senza strade e drenaggio e fogne. In passato perfino i vescovi locali avevano denunciato il degrado ambientale di quel territorio. Le lacrime del presidente della Sierra Leone, Ernest Bai Koroma, subito dopo la tragedia, e la richiesta disperata di aiuti, rendono l’idea di cosa significhi affrontare una emergenza di questo tipo in uno dei Paesi più poveri del mondo, negli ultimi 20 anni continuamente martoriato da calamità: prima la guerra civile, poi il colera, quindi l’epidemia di Ebola e ora la frana. Eppure il governo sta reagendo con dignità, nonostante i suoi pochi mezzi e la mancanza di infrastrutture, cercando di coordinare gli aiuti delle agenzie internazionali, molte delle quali già fortunatamente presenti sul posto.
«Il governo ha creato un centro di coordinamento e organizza incontri frequenti con le Ong e le organizzazioni dell’Onu. Fa quello che può ma serve un grosso aiuto esterno», dice Fabrizio Cavalletti, responsabile dell’ufficio Africa di Caritas italiana, che sta seguendo attentamente la situazione ed è in continuo contatto con Caritas Sierra Leone. «Questa settimana lanceranno un piano con una richiesta di fondi a tutte le Caritas del mondo per assistenza alimentare e kit igienico-sanitari – spiega -, alloggi d’urgenza, supporto psico-sociale e attenzione alle fasce più vulnerabili come bambini, disabili e anziani. Noi siamo pronti a sostenerli». A Freetown già operano le Caritas di Gran Bretagna (Cafod), Irlanda (Trocaire), Paesi Bassi (Cordaid) e Usa (Crs), che si sono attivate fin dai primi momenti del disastro. «Insieme alle Caritas locali stanno assistendo gli sfollati, alloggiati presso familiari o in campi in zone sicure – prosegue Cavalletti -. Poi distribuiscono cibo, vestiti e kit igienico-sanitari e aiutano nella gestione delle sepolture, per prevenire le possibili epidemie».
«È una delle peggiori catastrofi naturali mai accadute nel nostro Paese», afferma Edward John Bull, direttore nazionale di Caritas Sierra Leone, personalmente provato dalla vicenda perché nella frana ha perso 9 parenti, tra cui un bambino di 12 anni che a settembre avrebbe dovuto raggiungere la zia negli Stati Uniti. «Abbiamo migliaia di famiglie che hanno bisogno di tutto – dice -: cibo, indumenti, medicine, letti, tende, acqua e servizi igienici, alloggi e sostegno psicologico e sociale». Il direttore di Caritas Sierra Leone ci tiene a raccontare le storie delle vittime della frana, per far capire che non si tratta solo di numeri: «Una coppia doveva sposarsi la settimana prossima. Una famiglia di sette persone era appena tornata in Sierra Leone da una missione con le Nazioni Unite e sognava di godersi la nuova casa. Tutti i loro sogni sono andati distrutti in una notte». Il governo ha già celebrato i funerali di Stato per 300 vittime e dichiarato una settimana di lutto nazionale. Mentre per l’opinione pubblica internazionale è già una delle tante tragedie dimenticate.