«È nata all’estero e serpeggia un po’ovunque una specie di eresia, che non solamente attenta alla fondamenta soprannaturali della cattolica Chiesa, ma materializza nel sangue umano i concetti spirituali di individuo, di Nazione e di Patria, rinnega all’umanità ogni altro valore spirituale, e costituisce così un pericolo internazionale non minore di quello dello stesso bolscevismo. È il cosiddetto razzismo».
Comincia così una delle omelie forse più famose tra tutte quelle pronunciate nel Duomo di Milano, il cui titolo dice tutto: «Un’eresia antiromana e anticristiana». Era il 13 novembre 1938, prima domenica dell’Avvento ambrosiano, ottant’anni fa e la voce era quella, esile, ma decisa, dell’arcivescovo Alfredo Ildefonso Schuster. L’eresia, poi, era davvero un serpente velenoso e libero in molte parti d’Europa: il razzismo. Un’“idra” inarrestabile che, di lì a soli quattro giorni, avrebbe avuto un’altra testa nel nostro Paese dove, il 17 novembre, il Regio Decreto Legge n°1728, dal titolo “Provvedimenti per la difesa della razza italiana”, declassava quasi 50 mila ebrei italiani a cittadini di serie B.
Se le forti parole risuonate 80 anni fa nella cattedrale di Milano sono ormai famose, certamente meno noti sono gli eventi che circondarono la presa di posizione del cardinale Schuster il quale, da quel momento, verrà etichettato dallo stesso Mussolini e dai fascisti ambrosiani, come «nemico certo e acerrimo del regime». Anche perché, come diceva una nota interna dell’apparato di sicurezza: «L’omelia del Cardinale è arrivata come una doccia gelata anche per i fascisti osservanti».
Di quell’omelia rimangono molte testimonianze, in parte ancora riservate, presenti tra le missive allora indirizzate al Presule di Milano, a partire proprio da un notevole numero di lettere giunte, dopo la predica del 13 e nel giro di poco più di un mese, in Arcivescovado, da cui emerge, con particolare chiarezza, quanto l’antisemitismo fosse ben lungi dall’essere ormai “inoculato nel sangue degli italiani”, come aveva affermato perentoriamente il Duce durante il Gran Consiglio del 6 ottobre 1938 (peraltro credendoci poco anche lui) .
Ed ecco così apparire dal “Carteggio Schuster” una particolarissima memoria storica, quella degli anonimi cittadini e di personalità di spicco del mondo cattolico, di milanesi di tutte le classi sociali, di preti e nomi eccellenti della nomenklatura ecclesiastica che si rivolgono riconoscenti al Presule. A dimostrazione dell’importanza di quelle parole schusteriane che allora causarono, da una parte, entusiasmo, e dall’altra – ovviamente quella fascista -, sconcerto e, infine, un’ostilità sorda, destinata a durare sino agli ultimi tempi del Regime.
Se le reazioni pubbliche, come quella stessa del Duce (che, allarmato e iroso, pretende spiegazioni da Rino Parenti, federale di Milano) e le informative della polizia sulla situazione in città, danno conto del clima generale, assai rilevante appare anche ciò che, in privato, venne scritto a Schuster. Infatti, non solo la “quantità”, ma soprattutto la “qualità” dei documenti è significativa: la sensazione è che il Clero ambrosiano sia toto corde con il suo Pastore (bellissime le lettere dei parroci di popolose chiese cittadine come Sant’Eustorgio o Santa Maria del Suffragio) e che le intelligenze laiche più attente, da Tommaso Gallarati Scotti a Filippo Meda e Raimondo Manzini, comprendano già per intero la gravità delle Leggi razziali.
Ma è il federale Parenti che, nella sua goffa, quanto pseudo-zelante autodifesa, offre l’esatta dimensione, non solo religiosa, dell’intervento arcivescovile. Scrive, difatti, in data 29 novembre 1938: «[…] La mia opera non ha in alcun modo autorizzato a creare confusioni fra l’indiscusso prestigio del Fascismo milanese e la Chiesa […]. I lamenti dei protettori dei Giudei non sono raccolti. A Milano si sa che sul terreno della battaglia, sia razziale che di qualsivoglia altra natura, contro il Fascismo non la si spunta».
La verità, invece, è un’altra e il Capo del governo lo sa: ancora una volta, il “cuore” della Milano ecclesiale ha saputo tenere testa alla Milano del potere. E chissà se il Duce – che conosceva come pochi la realtà ambrosiana – avrà pensato quello che, oggi, è un convincimento storico certo, ossia che una predicazione tanto grave non poteva che essere stata concordata preventivamente con Roma.
È in un tale più ampio contesto che, infatti, si inserisce e va valutata l’omelia del Cardinale. Basti qui ricordare il lavoro della Diplomazia vaticana e, soprattutto, le coraggiose prese di posizione di papa Pio XI. Un filo rosso che va dalla sua notissima Enciclica “Mit brennender Sorge – Con ardente ansietà” fino alle parole rivolte dal Santo Padre ai pellegrini belgi, il 6 settembre 1938: «L’antisemitismo è inammissibile, spiritualmente siamo tutti semiti». Il ruolo politico del capoluogo lombardo e il legame strettissimo tra Schuster e Pio XI – che era stato a sua volta arcivescovo di Milano -, autorizzano, infatti, a pensare che l’omelia letta in Duomo fosse stata per lo meno conosciuta in precedenza, se non definita – ipotesi, questa, molto più probabile -, in Vaticano. Non a caso, nei verbali del Processo di beatificazione di Schuster, le testimonianze di uomini quotidianamente vicini al Cardinale, come i suoi segretari Ecclesio Terraneo e Guglielmo Galli, su questo punto, convergono: «Era il Santo Padre – dichiara Galli – che desiderava che l’Arcivescovo di Milano desse per primo il segnale di allarme contro l’insorgente barbara eresia». Mussolini, che conosceva Schuster e papa Ratti, sicuramente comprese la pericolosa portata dell’evento reso ancora più inquietante, per il Fascismo, dal rilievo offerto dalla stampa cattolica milanese.
Evidentemente qualcuno – così come accadde negli ambienti della cattolicità illuminata lombarda -, pur non potendo immaginare le tragedie nere in tutti i sensi del futuro repubblichino, seppe intravvedere nell’antisemitismo uno dei punti di non ritorno. Particolarmente belle e nobili, a tale proposito, sono le espressioni di Gallarati Scotti, inviate a Schuster alla vigilia del Natale 1938: «Acconsenta V.E. che colga questa stessa occasione per esprimerle il caldo consenso per la parola generosa e coraggiosa di ammaestramento che ha consolato e illuminato molte anime come la mia». E si potrebbero aggiungere, Raimondo Manzini e Sante Maggi. Se Manzini, quale direttore de L’Avvenire d’Italia, scrive: «Eminenza, ho letto con emozione l’alta pagina apostolica e apologetica circa “Una eresia Nordica”. La riproduciamo su L’Avvenire di domani: intanto, Eminenza, permetta che esprima anche a nome dei nostri lettori profonda gratitudine. Si ha tanto bisogno di conforto nella Verità», forse, ancora più giusto è ricordare anche il meno famoso Sante Maggi, direttore de L’Italia, che pagò – da giornalista libero – il suo coraggio. Nonostante l’appoggio incondizionato offertogli da Schuster, Maggi fu, infatti, rimosso dalla direzione del giornale dopo aver pubblicato, con grande evidenza, l’omelia in prima pagina, il 15 novembre.
A L’Italia non sarà, infatti, risparmiata la rabbia fascista, a cui risponderà lo stesso Pio XI. Il Santo Padre – questa volta a ricordare è Terraneo, mandato appositamente a Roma da Schuster – esortò il Cardinale di Milano «a sostenere con coraggio la dottrina cattolica, poiché non si può cedere su questo punto, né il giornale L’Italia può cambiare indirizzo».
Il ‘braccio di ferro’ durerà a lungo. «Credo, purtroppo, fondata la supposizione che si tratti di manovre milanesi, il che certo è doloroso perché, evidentemente, più che colpire la persona del direttore, vengono a colpire la persona stessa di Vostra Eminenza», scriverà Giovanni Penco, superiore generale della Compagnia di San Paolo, il 4 dicembre dello stesso 1938. Penco aveva visto giusto: la “fascistissima” Milano non poteva permettersi una stampa libera e un oppositore addirittura Cardinale: il rischio che l’esempio si diffondesse era troppo alto.
Non è, poi, cosa da poco, ma evidente scorrendo il Carteggio Schuster, che numerosi Vescovi guardassero a Milano consapevoli che, in realtà, era il Papa ad aver parlato.
E chissà cosa avrebbero pensato i solerti informatori dell’Ovra (i Servizi segreti dell’epoca) se avessero potuto avere tra le mani la lettera inviata a Milano dall’arcivescovo di Reggio Calabria, il sacerdote ambrosiano Enrico Montalbetti, che morirà tragicamente durante la guerra nel 1943. «Quante volte ho sentito rimproverare alla Chiesa una quasi connivenza all’errore. Questo servirà, io credo, a richiamare tutti i Vescovi d’Italia al loro dovere, perché è impressione generale che non tutti lo facciano».
Schuster, che aveva aperto la battaglia, nella sua agenda privata del ‘38 – tuttora inedita – scriverà, al giorno 13 novembre, una sola parola, di suo pugno: “Predica”. Come sappiamo non servì: 4 giorni dopo le Leggi razziali diventeranno, con la firma del Re, inesorabilmente Leggi dello Stato e si può ricordare che sono rintracciabili, in quella sciagurata legislazione, le basi della futura deportazione degli ebrei italiani. Per i milanesi, la partenza fu da Binario 21 della Stazione Centrale che, in linea d’aria, dista nemmeno un Km dal Duomo. Degli 896 iscritti alla Comunità ebraica di Milano deportati, la grande maggioranza partì per un viaggio di non ritorno. A rivedere la loro città, furono solo 50.