«Votare, appartenere e partecipare possono essere i tre verbi giusti per ripartire». Ne è convinto il segretario generale della Cei, monsignor Stefano Russo, che si sofferma sulle questioni più importanti che segnano l’inizio del nuovo anno.
Il 2019 è stato un anno segnato da una crisi politica che si è risolta con la formazione di un governo che vede riunite forze politiche in un’alleanza inedita. Che augurio esprime per la vita politica del Paese?
Auguro che finalmente possa esserci un’inversione di tendenza rispetto al clima di sfiducia generale verso le Istituzioni. La passione e la competenza possono essere decisive in questo, insieme all’identità che contraddistingue il nostro Paese. «La cultura della responsabilità – ha ricordato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel messaggio di fine anno – costituisce il più forte presidio di libertà e di difesa dei principi, su cui si fonda la Repubblica. Questo comune sentire della società – quando si esprime – si riflette sulle istituzioni per infondervi costantemente un autentico spirito repubblicano». È questo anche il mio augurio: che la cultura della responsabilità possa essere la medicina per curare le “pulsioni antidemocratiche”, registrate dagli ultimi Rapporti sul Paese, e la strada per ri-costruire il consenso verso le Istituzioni.
Nel 2021 ci saranno le elezioni a Roma. Ci può essere una ripartenza della Capitale d’Italia che possa fare da traino al Paese?
Le elezioni a Roma – così come avviene ogni volta che si vota – possono risvegliare il senso di appartenenza a una Città e il desiderio di partecipazione. Votare, d’altronde, può ridestare la passione per sentirsi parte di una comunità non frantumata nei desideri dei singoli individui, ma ricomposta da quel collante unico che è il bene comune. Per questo, la partecipazione a un progetto di vita comunitario diventa un’esigenza imprescindibile. L’auspicio è che, finalmente, non si vada più in quel “cortocircuito” analizzato da Nando Pagnoncelli: «Più i cittadini mostrano delusione per il Paese, più cercano gratificazioni nel loro territorio. Quando le trovano si acuisce la distanza dal resto dell’Italia. E tutto ciò si ripercuote sulla fiducia nelle istituzioni e sulla coesione sociale che sono essenziali per mettere in atto i processi di cambiamento che tutti reclamano ma nessuno sembra volere realmente». Votare, appartenere e partecipare possono essere i tre verbi giusti per ripartire.
Perché la Chiesa italiana ha promosso un incontro di riflessione e spiritualità a Bari, dal 19 al 23 febbraio, con tutte le Chiese che si affacciano sul Mediterraneo?
Il progetto di questo incontro risponde a un’intuizione del cardinale presidente Gualtiero Bassetti. Come ha spiegato in più occasioni, l’appuntamento ha radici profonde: incarna la visione profetica di Giorgio La Pira che, dalla fine degli anni Cinquanta, aveva ispirato i “Dialoghi mediterranei” e aveva anticipato lo spirito che avrebbe soffiato sul Concilio Vaticano II. Oggi abbiamo la possibilità di iniziare a mettere in pratica quella visione partendo dal mare che La Pira chiamava «il grande lago di Tiberiade». Non sarà un convegno, ma un incontro nello stile sinodale che contraddistingue ormai da decenni il nostro “convenire” ecclesiale. Sarà un laboratorio di sinodalità, come stile di vita da lasciar trasparire nella stima vicendevole, nella gratitudine, nella cura delle relazioni. La Chiesa mediterranea è presente e operante, ricca di tradizioni liturgiche, spirituali ed ecclesiologiche: oggi c’è la possibilità di rafforzare le strutture di comunione esistenti e forse d’inventarne di nuove.
A proposito delle voci di un Sinodo della Chiesa italiana, è un percorso che si sta perseguendo?
Mi tornano alla mente le parole pronunciate dal cardinale Anastasio Alberto Ballestrero, allora presidente della Cei, a conclusione del secondo Convegno ecclesiale nazionale (Loreto, 9-13 aprile 1985), sul tema «Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini». Affermava, quasi profeticamente, anticipando le voci che si rincorrono da qualche anno: «Il Convegno ha rivelato uno stile di vita ecclesiale. Perché non dirci allora che convenire tutti insieme è stile di vita ecclesiale e che questi Convegni vogliamo viverli non soltanto come circostanze propizie per dir qualcosa e fare qualcosa, ma come dimensioni essenziali della vita della Chiesa?. Una comunità che non s’incontra non è comunità. Perciò dico che la Chiesa italiana sta imparando a convenire, a riunirsi a convegno. Sono molti i modi di convenire. Ce ne sono alcuni solenni, vorrei dire storici: sono i grandi Concili della Chiesa. Poi ci sono i Sinodi, come ci sono pure incontri richiesti dalle varie istanze delle Chiese locali. Ma anche il convenire in questo modo, in cui la dimensione di popolo, la dimensione plenaria ed organica della comunità emerge e si esplicita, è una acquisizione che arricchisce l’esperienza di Chiesa». L’esperienza del “convenire”, vissuta da ormai cinque decenni dalla Chiesa italiana, è per tutti noi una grazia spirituale e uno stile pastorale. “Sinodale” è uno stile, un modo di vivere, un “convenire”, un’esistenza radicata in motivazioni profonde.
Il 2019 è stato caratterizzato da un risveglio collettivo sul tema dei cambiamenti climatici, con migliaia di giovani in piazza in tutto il mondo. È una questione avvertita dalla Chiesa?
Certamente e, in un certo senso, la Chiesa italiana ha anticipato i tempi: sono quindici anni che viene celebrata la Giornata nazionale per la Custodia del Creato. Credo che dai giovani emerga non un semplice impegno passeggero, ma una vera e propria richiesta su cui, magari, imbastire quel dialogo generazionale che permetterà di ricomporre la società e di pacificarla in tutte le sue sfaccettature. D’altronde – e il Santo Padre lo ricorda nell’Enciclica Laudato si’ – la crisi ambientale richiede un approccio ampio, integrale, che comprenda le dimensioni umane e sociali. Si tratta di elaborare progetti virtuosi che mettono in chiara evidenza la necessità di educare a un grande senso di responsabilità verso tutto ciò che ci circonda.
Crescono nel mondo diverse forme d’odio che sfociano spesso in fatti drammatici. Come leggere questi tempi?
Qualsiasi persona dotata di buon senso e di apertura verso l’altro non può non essere preoccupata per l’acuirsi di tutte le forme di odio. Il susseguirsi di eventi così drammatici sta annientando il senso stesso dell’umanità. E qui non si tratta di credo religioso. A essere messo in discussione è il concetto di umano. Chi sei tu per me? Chi è il mio fratello? Ma più in profondità: chi sono io? Ciò che mi preoccupa è la sottovalutazione che molto spesso si dà ai discorsi di odio e a tutte le forme di malvagità più o meno celate. Sono preoccupato dal male che serpeggia nelle nostre società. Sono preoccupato per le ferite e le lacerazioni che ogni attentato lascia dietro di sé. Sono drammi infiniti di cui forse non c’è grande coscienza. La commozione momentanea svanisce, la preoccupazione rimane. E, forse, è giunto il momento per un grande movimento planetario per bandire qualsiasi forma di odio. Ecco, mi auguro che il nuovo anno porti l’input per questo cambiamento mondiale.
Il 2020 sarà l’anno della Brexit. Una sconfitta per l’Europa?
Di sicuro non si tratta di una buona notizia. Il lungo percorso verso l’unità europea ha dato pace ai nostri popoli, facendo da sfondo necessario per decenni di democrazia, diritti e sviluppo economico e sociale. Se questa unità s’incrina, significa che qualcosa non ha funzionato. La scelta dei britannici di lasciare l’Unione europea è legittima e va rispettata: guardando al futuro occorre costruire un nuovo partenariato, che veda Ue e Regno Unito ancora vicini e collaboranti per il bene dei rispettivi popoli. Aggiungerei una sottolineatura: Brexit andrebbe colta, da parte dei Paesi membri dell’Ue, come un segnale, una sollecitazione a una revisione interna. Forse è tempo di verificare se ci sono riforme da realizzare, in modo da rendere le istituzioni comunitarie più efficaci e democratiche e per avvicinare gli stessi cittadini al grande progetto dell’unità europea.