Sulla stele che lo ricorda, sulla statale 640 Porto Empedocle-Caltanissetta, nel luogo in cui fu ucciso dalla stidda agrigentina, Rosario Livatino viene indicato come “martire della giustizia”. Adesso la Chiesa cattolica, con l’autorizzazione di papa Francesco alla Congregazione delle cause dei santi a promulgare il decreto, lo riconosce come “martire in odium fidei”. E, quindi, beato. Il secondo, ucciso dalla mafia, dopo don Pino Puglisi. Il percorso del processo di beatificazione, a livello diocesano, era cominciato nel 2011. Postulatore, in quella fase, è stato don Giuseppe Livatino, omonimo del giudice.
Come ha accolto questa notizia?
Il primo pensiero va ai genitori di Rosario. Lo hanno accudito e visto crescere, ma hanno scoperto chi era realmente solo dopo la sua morte. Sto pensando ai fatti che neanche loro conoscevano: al suo recarsi ogni mattina nella chiesa di San Giuseppe, dove pregava prima di affrontare la giornata lavorativa. Così come ai momenti di difficoltà che ha vissuto: minacce e intimidazioni che hanno potuto appesantire il suo animo. Anche di queste cose non erano a conoscenza. Ricordo solo che entrambi, man mano che passavano gli anni e la notorietà della testimonianza di Rosario si diffondeva, erano come smarriti. A un certo punto, però, hanno acquisito anche loro questa consapevolezza. Il padre una volta mi disse: ‘Mio figlio è un santo’.
Perché?
Forse in quel momento è riuscito a capire un fatto inspiegabile. La notorietà di Livatino e anche la sua fama di santità non si sono diffuse per opera umana. Nel senso che non c’è stata una campagna o inizitive. Ma la maniera, quasi misteriosa, in cui ciò si è verificato la dice lunga sui progetti di Dio.
La beatificazione avviene per un motivo particolare. Viene riconosciuto il martirio in odium fidei…
Sembrava anche questo un ostacolo quasi insormontabile, però in realtà la testimonianza nel senso teologico del termine c’è. Rosario, affidando la sua vita nelle mani del Signore e fidandosi di lui anche quando viene ‘deluso’ dalla magistratura, dimostra di essere un battezzato e un discepolo di Cristo disposto a salire sul Calvario. Sono convito, anche in base agli elementi che abbiamo esaminato durante il processo, che lui sapeva perfettamente che stava andando incontro a un qualcosa di tragico. Quando il giorno prima si erano diffuse strane voci ad Agrigento su un attentato a qualche esponente dello Stato, credo che abbia pensato soprattutto a se stesso. Sapeva bene di essere totalmente disarmato, ma nonostante tutto quella mattina prese la macchina come sempre. Sapeva che poteva essere la sua ultima volta, ma andò regolarmente ad Agrigento, perché lo aspettano per lavorare. C’era un incontro dei giudici del Collegio di sorveglianza. Le parole riferite dai pentiti, pronunciate da Rosario prima di morire, ‘Che cosa vi ho fatto’, rivelano un fatto importante.
Quale?
Se noi oggi definissimo Rosario un giudice antimafia sarebbe arrabbiatissimo, perché lui non è mai stato contro niente e contro nessuno.
La sua unica preoccupazione era quella di rendere giustizia come atto di donazione di sé a Dio.
Livatino non faceva il giudice per infliggere delle pene, ma giudicava per poter riportare in qualche modo l’ordine voluto da Dio. E quindi una serena covinvenza tra gli uomini. Questa visione l’esprime più volte. In particolare, nella conferenza che tenne nel 1986 su ‘fede e diritto’. Il fatto di sostenere che l’atto di giustizia è anche atto d’amore conferma che non si trattava di giudicare per condannare. Ma di giudicare con gli occhi di Dio, soprattutto per redimere. Non per condannare. Questa era la visione che aveva della sua professione.
Che cos’ha generato la morte di Rosario Livatino in chi lo ha ucciso?
Ha generato certamente un senso di vuoto in uno dei quattro esecutori materiali dell’omicidio, che ha fatto e continua a fare un percorso di conversione e di fede seguito dal cappellano del carcere e anche da un gruppo di suore. Io ho incontrato quest’uomo a Milano. Ripeteva in maniera ossessiva queste parole: ‘Se potessi tornare indietro…’. A un certo punto gli ho detto: ‘Tu non puoi tornare indietro, nessuno può tornare indietro. Ma avanti puoi andare. Cioè puoi fare in modo che altri giovani non vengano illusi come tu sei stato illuso dalla sete di potere, dalla sete di denaro e dal desiderio di delinquere’. Questo è certamente un grande segno. Penso anche a tutto il bene che Rosario con la sua testimonianza ha seminato ovunque. Penso a quante persone da quel 21 settembre 1990 si ispirano a lui per svolgere quotidianamente il proprio lavoro.
Quante intercessioni sono state riconosciute a Rosario Livatino?
Essendo stato seguito il tracciato dell’odium fidei – e io aggiungerei – et iustitiae, cioè odio verso la fede e anche verso la giustizia, in questa prima fase non occorrono miracoli riconosciuti. Anche se c’è un fatto che è stato documentato, sottoposto anche alla Congregazione per le cause dei santi. Però, credo che a questo punto sarà utile per il passaggio successivo che è quello dalla beatificazione alla canonizzazione. Si tratta di un evento straordinario di una donna guarita dal da un linfoma di Hodgkin in maniera inspiegabile, definitiva e improvvisa. Questa intercessione viene attribuita al beato Rosario Livatino.
Lei ha avuto contatti personali con il giudice mentre era in vita?
Sì, c’è stata una telefonata nel 1986. Un gruppo di giovani studenti, dopo l’apertura del maxiprocesso di Palermo, voleva organizzare un convegno per sensibilizzare sui temi della giustizia e della legalità. Mi venne subito in mente lui, perché aveva istruito e poi concluso il maxiprocesso di Agrigento contro le cosche mafiose, nel 1984. Mi venne in mente la sua figura. Provai a chiamarlo. Mi disse che non sapeva quali impegni di lavoro avrebbe avuto in quel periodo. Poi, purtroppo non riuscì a partecipare, ma quello era un periodo difficilissimo per la provincia di Agrigento, in cui le stragi di mafia erano all’ordine del giorno. Ricordo quella voce garbata e serena. Anche il padre lo ripeteva spesso: ‘Quelli che incontravano mio figlio provavano un senso di pace interiore’.
Per quanto tempo lei ha seguito il processo di beatificazione a livello diocesano?
Per tutti i sette anni del processo: è iniziato nel 2011 e si è concluso il 3 ottobre 2018, che era il giorno del compleanno del giudice Livatino. Abbiamo voltuto far coincidere l’apertura con il giorno del sacrificio, 21 settembre, e la chiusura nel giorno del compleanno.
Oggi, qual è il messaggio che darebbe il giudice Livatino?
Il messaggio più forte è sicuramente un invito alla coerenza. In un mondo fatto di tante mediocrità e contrassegnato da arrivismi e cinismo, il suo sarebbe un invito a essere persone serie e cristiani seri, di testimoni credibili del Vangelo e del messaggio della vita buona che scaturisce dal Vangelo.