«La visita del Papa è un segno importante che viene dal mondo ecclesiale. La scelta di incontrare la realtà difficile e dolente del carcere si pone come invito a tutti i credenti e a tutti gli uomini di buona volontà a non dimenticare quelle persone che, se anche temporaneamente allontanate dalla società libera, sono in attesa di rientrare pienamente e definitivamente in essa». L’ha detto Luisa Prodi, presidente del Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario (Seac), in occasione della visita di Benedetto XVI con i detenuti del carcere romano di Rebibbia, avvenuta domenica 18 dicembre.
Il sistema di detenzione – ha detto il Papa – ruota intorno a due capisaldi, entrambi importanti: da un lato tutelare la società da eventuali minacce, dall’altro reintegrare chi ha sbagliato senza calpestarne la dignità ed escluderlo dalla vita sociale. C’è ancora molta distanza tra i due capisaldi?
I due capisaldi cui si è riferito il Papa risultano al momento presente molto squilibrati fra loro: il sistema penitenziario italiano è rivolto quasi esclusivamente alla custodia dei reclusi e riesce a curare poco tutto ciò che riguarda il trattamento rieducativo e il reinserimento sociale. Il sovraffollamento delle carceri è insopportabile non solo perché costringe le persone detenute a vivere in condizioni inumane, prive di alcuni diritti essenziali universalmente riconosciuti, ma anche perché rende impossibile l’attuazione di programmi trattamentali, che sono previsti dalla legge, e che dovrebbero preparare l’ingresso del detenuto nella società mediante la formazione al lavoro, l’istruzione, la crescita culturale, i contatti familiari.
Il Papa nel suo discorso ha rivolto un appello alle istituzioni e alla società civile. Che valore hanno le sue parole in un sistema che tende a dimenticare, sia dentro che fuori dalle strutture di pena, i detenuti?
Se il Papa è andato a Rebibbia è in primo luogo per visitare le persone là recluse, e, sia pure in modo simbolico, tutti i reclusi del mondo. Ha voluto salutare in quei volti e in quelle storie il volto e la storia di Colui che ha detto «ero in carcere e siete venuti a trovarmi». Ma accanto al grande valore religioso e umano del gesto del Papa c’è senza dubbio un richiamo a tutta la società a prendersi cura del carcere, affinché chi là è rinchiuso non si trovi a scontare quella che il Papa ha definito una “doppia pena”. Il richiamo è in primo luogo alla politica, che per lungo tempo non ha voluto affrontare seriamente la questione, anche per timore di impopolarità o critiche. I provvedimenti che il Ministro Severino ha annunciato tre giorni fa, e che certamente non possono essere da soli risolutivi della disastrosa situazione delle carceri, avrebbero potuto essere adottati molto tempo prima: si sarebbero risparmiate tante sofferenze inutili. Il discorso del Papa però non è rivolto solo alle istituzioni, ma a tutta la società civile, affinché si apra all’accoglienza di coloro che escono dal carcere offrendo in concreto delle possibilità per ricominciare una vita diversa. Questa accoglienza va pensata, progettata e attuata, per mezzo di decisioni e iniziative concrete, che devono essere messe in programma: non è più il tempo di dire che la situazione è grave, occorre intervenire.
Quale messaggio viene al volontariato da questa visita?
La visita del Papa a Rebibbia per il volontariato è lo sprone a continuare l’impegno per il carcere con maggiore speranza. Il nostro servizio consiste essenzialmente nel farsi prossimo di alcuni detenuti e delle loro famiglie durante il periodo difficile della reclusione e nel dopo pena. Questa prossimità ci rende ‘esperti’ del carcere e a questo titolo ci sentiamo di dover sollecitare la nostra società ad una maggiore sensibilità e ad un maggior impegno verso i reclusi.