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Speciale

«Soul», spiritualità in festival

Sirio 01 - 10 novembre 2024
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Confronto

Riparare il male, tra dolore e meraviglia

L’incontro, la mediazione, il dialogo, la riscoperta dell’umanità: queste le tappe del percorso di giustizia riparativa, che vede protagonisti le vittime di un reato e chi l’ha commesso, al centro di un dibattito nella giornata conclusiva di «Soul»

di Annamaria BRACCINI

18 Marzo 2024
Il tavolo dei relatori

«Un percorso meraviglioso anche se dolorosissimo». A definire così i cammini della giustizia riparativa, che portano a far incontrare e a dialogare le vittime di un reato e chi l’ha commesso, è stata una delle protagoniste dell’intenso appuntamento che, presso la Biblioteca Ambrosiana nel contesto degli eventi del «Soul Festival», ha riunito un folto pubblico intorno al tema «Riparare il dolore: l’altro come scoperta».

L’incontro

Al tavolo dei relatori due testimoni di eccezione: Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalla Brigate Rosse nel 1978, e Grazia Grena, ex Prima Linea, terrorista dissociata, ma che non ha mai rinnegato il suo passato e che oggi, dopo aver scontato diversi anni di carcere, si occupa di volontariato nel penitenziario di Lodi e ha fondato l’associazione “Loscarcere”. Accanto a loro il criminologo della Bicocca Adolfo Ceretti e i giuristi della Cattolica Gabrio Forti e Claudia Mazzuccato. Moderato dalla co-curatrice di «Soul», Valeria Cantoni Mamiani, l’incontro si è aperto con l’introduzione del prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana, monsignor Marco Navoni, che, per l’occasione, ha deciso di esporre il prezioso manoscritto originale del Trattato dei Delitti e delle Pene, redatto nel 1764 da Cesare Beccaria. Anzi, delle Pene e dei Delitti, nel suo titolo originario, «che indica il desiderio di concentrarsi, prima che sul reato, sul concetto della pena». Una sorta di «reliquia laica», come l’ha più volte definito il cardinale Ravasi ai tempi della sua prefettura in Ambrosiana, il manoscritto normalmente non è esposto e il suo possesso, da parte della Biblioteca, si deve a un altro prefetto, Achille Ratti, poi divenuto papa Pio XI, che l’acquistò nel primo decennio del secolo scorso, riconoscendone l’altissimo valore.

Il manoscritto di Beccaria

Insomma, un’opera preziosa per accompagnare un momento di profonda umanità, sospeso tra testimonianze «vissute nella carne» e la sottesa e più ampia questione della giustizia riparativa, per la quale lo Stato si è dotato di uno strumento giuridico, attraverso gli articoli da 42 a 67 del decreto legislativo 150 del 30 dicembre 2022 in attuazione della legge del settembre 2021, più nota come «legge Cartabia» dal nome della Guardasigilli che ne sostenne il complesso iter.

La giustizia riparativa

Così come lungo è stato il cammino, durato sette anni, che ha avuto come frutto il Libro dell’Incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto, edito nel 2015 e curato da Ceretti, dal gesuita padre Guido Bertagna – alcune persone desiderose di ascolto si recarono da lui e da lì ha preso avvio il “Gruppo” della giustizia riparativa – e dalla stessa Mazzuccato, che spiega: «La giustizia riparativa è la giustizia che fa dell’incontro un metodo, a fronte di una giustizia contro cui combatteva Cesare Beccaria e che ancora è presente, quella che separa, mette le gabbie, allontana. Riparativa è la giustizia che si spalanca sulla meraviglia dell’ignoto. È un incontro libero e volontario, sorprendente perché la giustizia penale classica non ha niente di spontaneo essendo basata sulla coercizione, subìta passivamente da chi sconta una pena. Questo ci dice perché questo percorso apparentemente fragile, in realtà, è forte. Abbiamo usato la giustizia riparativa come un metodo, insieme recente e antico che affonda le sue radici nella infinita ricerca umana della giustizia». Perché come si dice nel volume che contiene il dialogo, tra il cardinale Martini e c Gustavo Zagrebelsky per la Cattedra dei Non Credenti, «non sappiamo cosa sia la giustizia, ma sappiamo molto bene cosa siano le ingiustizie». «La giustizia riparativa è qualcosa di molto concreto, non ha niente di irenico, è una lotta che, partendo da una siderale distanza, spinge a trovarsi nell’unico luogo dove è possibile incontrarsi, il dialogo. L’obiettivo è riuscire a vivere insieme, non è un comando di grandezza etica».

Grazia Grena e Agnese Moro

Moro e Grena: la meraviglia dell’incontro

Agnese Moro, psicologa e dal 2010 parte del “Gruppo” della giustizia riparativa, avvia il suo intervento da tre termini: «Lontananza, sorpresa, meraviglia».

«La lontananza di chi ha subìto il male e di chi l’ha fatto. La sorpresa del rendersi conto che, in questa lontananza, ci sono cose che rendono uguali, pur nella differenza che rimane tale, ossia l’idea dell’irreparabile che matura da entrambe le parti. Mentre sull’irreparabile non si può fare assolutamente niente – mio padre è morto e non ritorna – possiamo agire sulle scorie radioattive di questo stesso irreparabile. Scorie come l’immobilità di un passato che non passa mai rimanendo qualcosa che si rinnova ogni giorno nella vita ordinaria e occupando gran parte di quello che uno è. Questo porta a imporre delle maschere: la vittima per sempre e il cattivo per sempre, con un ruolo preciso che finisce per mangiarsi molto dell’esistenza che, appunto, rimane immobile. E, ancora, la scoria del silenzio, del “non si possono trovare parole” e, terzo, l’invasione di sentimenti come il rancore, l’odio, il disgusto, il senso di colpa, il rimorso per quello che non si può riparare. Sangue e fantasmi di un peso che toglie il respiro». E, poi, la meraviglia dell’incontro: «che può smuovere – per Agnese Moro – tutta questa immondizia che abbiamo dentro e che ci dice che l’orrendo che è stato rimane orrendo, ma non è l’oggi. Qualcosa si muove, il silenzio si scioglie e l’ingombro lascia il posto a possibilità nuove, guardando al domani».

Parole condivise, dopo un lungo applauso, da Grazia Grena, che parla della sua vita: «Ero alla ricerca di un senso, avevo fatto molto lavoro individuale, interiore, le gabbie già da tempo con c’erano più, ma ero alla ricerca di altro, di una profondità per capire perché avevo agito in quel modo negli anni della lotta armata. Il passato non passa. Ancora oggi c’è un bisogno estremo di capire come persone così diverse e improbabili possano incontrarsi e ciò avviene nel momento in cui si riesce ad ascoltare, a guardarsi negli occhi, a sentirsi vive, come è accaduto a me e ad Agnese, una grandissima amica nonostante tutto. In tale reciprocità, passo dopo passo – è una giustizia lenta, quella riparativa, viene più volte detto dai relatori -, si riesce a ritrovare il senso che stavi cercando: l’altro. Questo è stato possibile perché il “Gruppo” mi ha restituito dignità e non ci ha mai fatto sentire inferiori: un incoraggiamento grandissimo che mi ha dato la forza di continuare in momenti molto difficili. È dentro questa relazione che si è venuto a ricostruire un fuoco, che avevo in me e che mi convinceva da giovane a distruggere tutto, divenuto ora più dolce».

Il pubblico presente

Il mediatore

È Adolfo Ceretti, docente di Mediazione reo-vittima nell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, nel 2021 nominato dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia quale coordinatore del Gruppo di lavoro per il decreto legislativo recante la disciplina organica della giustizia riparativa, a delineare il ruolo fondamentale, in questi percorsi, del mediatore, da lui stesso esercitato anche in contesti internazionali: «Il lavoro che abbiamo fatto come mediatori è di essere in praterie meravigliose, accogliendo l’indicibile. Un parlarci trovando corrispondenze interiori – cosmologie personali come le chiamo –   che è il modo con cui costruire se stessi dentro la complessità. Ma è difficile far conoscere agli altri, e anche a noi stessi, le diverse nuances di queste cosmologie; per questo è importante la figura del mediatore, non equidistante, ma equi-prossimo alle parti, una terzietà che coglie le cosmologie delle persone tentando di avvicinarle, in modo che i silenzi delle anime pietrificate, possano scongelarsi. La riflessività dialogica significa entrare in contatto con la nostra conversazione interiore attraverso l’altro: mentre dialoghiamo con qualcuno possiamo metterci in contatto anche con la nostra conversazione interiore e ciò è preziosissimo».

Infine, Gabrio Forti, garante del Libro dell’Incontro, garantendo, appunto, che quanti stavano compiendo quel cammino lo facessero seriamente e liberamente, evidenzia: «Seppure abbiamo una capienza non molto estesa per la sofferenza degli altri, ci sono dei momenti che riusciamo a fare nostro il male altrui». Il riferimento è a un episodio narrato da Primo Levi che racconta il «momento di pietà», nel quale persino gli uomini del sonderkommando di Auschwitz, addetti ai forni crematori, si fossero fermati quando, sotto il cumulo dei cadaveri della camera a gas, venne scoperta una ragazzina di 16 anni ancora viva. Così come Manzoni, nei Promessi Sposi, racconta «l’insolito rispetto» dei monatti di fronte al dolore atroce della mamma della piccola Cecilia morta di peste. «In quel momento i monatti come i sonderkommando ammutoliscono e si interrompe la continuità spasmodica degli eventi per il riconoscimento della dignità della persona umana. Più che definirla, la dignità, bisogna vederla – scandisce ancora Forti -. La giustizia riparativa si basa sulla narrazione che ci guarisce, costruendo comunità che si costituiscono intorno a delle storie. Forse per questo oggi la narrazione, che ha bisogno di silenzio, non trova spazio in un mondo come l’attuale».

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