Da pochi giorni si sono concluse le Paralimpiadi di Parigi 2024. Un momento di sport, cultura, spiritualità ed entusiasmo. Diventa quindi naturale domandarsi cosa ci abbiano lasciato.
Una notizia storica non possiamo tralasciarla. I Giochi paralimpici nascono per intuizione di Antonio Maglio, medico e neuropsichiatra. Può essere considerato il padre del movimento paralimpico in Italia. Nato al Cairo, segue le ricerche del neurologo Ludwig Guttmann che, nella piccola città di Stoke Mandeville alle porte di Londra, per primo usò lo sport come terapia per curare i reduci di guerra e ideò i primi Giochi internazionali per disabili. Maglio trasferisce i suoi insegnamenti nel Centro Paraplegici di Ostia “Villa Marina”, inaugurato nel 1957. Nel 1960, in concomitanza con le Olimpiadi, riesce a portare i Giochi di Stoke Mandeville a Roma, dando luogo alla prima Paralimpiade. Da quel momento in poi si sono svolti i Giochi paralimpici, ai quali l’Italia ha presentato sempre squadre di alto livello, ottenendo risultati costantemente interessanti fino a quelli dell’ultima edizione: il medagliere di Parigi conta 71 medaglie, di cui 24 di d’oro, 15 d’argento e 32 di bronzo, un vero trionfo.
Gli atleti paralimpici ci hanno aiutato a capire che lo sport è un luogo non solo d’incontro, ma anche di crescita e accettazione dell’altro, soprattutto quando le realtà circostanti della società odierna tendono a escludere piuttosto che a includere. Uno dei punti importanti è offrire a tutti la possibilità di partecipazione, di competizione onesta. La Paralimpiade è proclamazione di una libertà del corpo che si racconta, che testimonia la valorizzazione dei talenti di ognuno. Nei Giochi paralimpici è evidente che ogni atleta parte da quello che è, non da quello in cui è mancante. Il fisico di ognuno, anche dei normodotati, ha dei limiti, che devono essere visti, riconosciuti, accolti, indirizzati, inclusi e quindi divengono espressione della bellezza di ogni donna e uomo che si relaziona nella società. Non c’è spazio per l’individualismo, l’oggettivizzazione spettacolarizzante o la perfezione esasperata, perché ognuno di noi tende alla perfezione nel suo cammino individuale di umanizzazione, indipendentemente dal suo reale stato fisico o psichico.
In questi termini possiamo porre l’intervento interessante dell’atleta azzurro che, in questa Paralimpiade, forse ha attirato più simpatia e partecipazione emotiva, senza nulla togliere agli altri. Ci riferiamo a Rigivan Ganeshamoorthy (detto Rigi), cresciuto a Dragona, quartiere di Roma, da una famiglia originaria dello Sri Lanka: dopo il manifestarsi della Sindrome di Guillain-Barré, a cui nel 2019 si aggiunge la lesione cervicale conseguente a una caduta, prova prima il basket e la scherma in carrozzina, poi inizia a praticare l’atletica leggera, specializzandosi nei lanci. È riuscito a migliorare per 3 volte il record del mondo di getto del peso e per ultimo ha vinto la medaglia d’oro. È un ragazzo di 25 anni che rigetta la definizione di «supereroe» e si definisce una persona che ha preso in mano la sua «nuova vita» decidendo di non tralasciare alcuna opportunità presentatagli nel suo cammino di crescita. Rifiuta di isolarsi e si mischia con il quotidiano relazionandosi con le persone positive, valorizzando i punti forti del suo carattere, stabilendo rapporti di fiducia con chi accetta di fissare un patto d’amicizia. Utilizza il giusto humour per parlare anche a chi potrebbe risultare scettico e indifferente alle varie tematiche della disabilità. Comunica di aver ricevuto dal mondo delle persone con disabilità un insegnamento, e cioè che i limiti possono essere superati e che dietro ogni «limite» si nasconde l’opportunità di trovare una soluzione. Una lezione di vita.
Come lui ricordiamo Assunta Legnante, pesista e discobola non vedente, che ha vinto 3 ori e 3 argenti. E così tanti altri atleti e atlete, italiani e non, che hanno preceduto Rigi e Assunta e che li seguiranno. Vogliamo concludere, però, con un cenno agli atleti e atlete rifugiati, presenti sia ai Giochi olimpici sia a quelli paralimpici. Una squadra composta da quanti provengono da Paesi in guerra o in difficoltà sociale e relazionale. Purtroppo divengono sempre più, ma attraverso l’accoglienza, la condivisone e la comprensione delle difficoltà si è riusciti a trasformare il tutto in opportunità e partecipazione.
Non dimentichiamo quanto di più bello queste occasioni di sport ci hanno trasmesso e insegnato, emozionandoci, scatenando ammirazione e una sempre maggiore comprensione di come dobbiamo essere costantemente in cammino di conversione vera, leale e partecipativa.