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Violenze

Pollo: «Non sento più parlare di politiche giovanili»

L’antropologo ne è convinto: le aggressioni ad alcune ragazze da parte di coetanei in piazza Duomo mostrano che la società italiana deve rimettere mano ai processi educativi

di Elisabetta GramoliniAgensir

17 Gennaio 2022

Serve uno scossone forte, perché gli episodi di violenza pare non bastino. La società si dice scioccata per le aggressioni che alcune ragazze hanno subito in piazza Duomo da parte di un gruppo di coetanei. Eppure fatti di questo genere sono il risultato di un’assenza di politiche giovanili che sappiano cogliere i segnali e intervenire per colmare i disagi. Ne è convinto Mario Pollo, antropologo dell’educazione, già docente di sociologia e pedagogia all’Università Lumsa di Roma, che spiega come sia ora per la società italiana di fare i conti con le lacune e rimettere mano ai processi educativi finora da bocciare.

Professore, i fatti di Capodanno a Milano sconvolgono e aprono gli occhi: esistono giovani che soffrono un disagio forte e delinquono in questo modo?
È successo già in Francia una ventina di anni fa, quando giovani figli di immigrati di terza generazione. I francesi davano per scontato che si sentissero francesi. Non solo quei ragazzi non si sentivano francesi, ma avevano dei sentimenti ostili. Un altro fatto simile è avvenuto qualche anno fa a Colonia sempre a Capodanno (nel 2016, ndr). Qui in Italia fatti così eclatanti non erano mai emersi.

Era destino che capitasse anche da noi?
Sì, perché ci sono vari fattori in gioco. In primo luogo, questi ragazzi non hanno vissuto un’integrazione piena. Poi c’è l’elemento della massa in cui la paura dell’essere toccati cambia e le persone accettano di stare corpo a corpo e muta il senso di responsabilità individuale che diviene condivisa. Poi c’è la cultura non ancora interiorizzata della parità fra maschio e femmina e il senso di dominio e prevaricazione ancora latente. Questi fattori creano una miscela esplosiva. Il senso di appartenenza dato dalla massa per arrivare a pienezza ha bisogno di una scarica, secondo la logica del branco, che in questo caso è stata la violenza. Il fatto che questi ragazzi mantengano una sorta di sradicamento e allo stesso tempo legami con gli aspetti più arcaici della cultura da cui provengono è un fattore che ci indica come le politiche di integrazione non siano state sviluppate. E che poi questi ragazzi fossero in un gruppo con radici simili conferma che non si sono integrati.

Colpisce l’età molto giovane dei ragazzi finora fermati…
Non c’è da stupirsi. Il fenomeno non riguarda solo ragazzi che hanno radici in altri gruppi etnici, ma anche molti italiani.

Chi intercetta questi fenomeni di disagio sono alla fine solo le forze dell’ordine?
C’è una crisi profonda delle politiche giovanili per favorire lo sviluppo umano e delle capacità dei ragazzi. Così come mancano attività tese a creare comunità. Esistono ancora ma sono realtà sporadiche, mancano attività di largo respiro. Sono anni che non sento più parlare di politiche giovanili. Oggi rispetto ai giovani tendiamo a proteggerli, specie quelli più vicini a noi, e facciamo di tutto per renderli tardivamente protagonisti della vita sociale. C’è un problema generale. Nel mondo giovanile, è troppo diffusa la concezione che il divertimento sia sballo. Divertirsi significa assumere alcol e sostanze stupefacenti. Il rischio non è solo per la propria incolumità, ma anche per la trasgressione delle regole sociali. Qui entra in gioco quella quota di nichilismo presente nella nostra società e che spesso il mondo giovanile patisce.

La responsabilità è fondamentalmente degli adulti?
Sì e dell’assenza di politiche giovanili, della capacità educativa. Dimentichiamo spesso che l’educazione non è riducibile all’istruzione. La scuola è una componente importante nel processo educativo ma non è l’unica. Molti come me hanno avuto un passato legato alla parrocchia dove trovavamo altre forme di educazione.

La parrocchia può intercettare i cattolici. Ma per i ragazzi che provengono da famiglie con altre fedi religiose non c’è altro?
Poco. Un tempo c’erano i centri di aggregazione giovanili promossi dai comuni e facevano parte degli strumenti delle politiche giovanili. Laddove ancora esistano credo abbiano perso significato e rilevanza. C’è una minoranza di giovani che ancora riesce a usufruire ai servizi pubblici e privati, ma c’è una stragrande maggioranza dispersa nel territorio che non ha nessuna cura.

Alcuni sottolineano l’origine straniera delle famiglie dei ragazzi fermati come se fosse un aggravante. È il sintomo di un fatto: pure una parte della società andrebbe educata?
Ci sono forze politiche che si pongono contro l’immigrazione e questo la dice lunga sul tema. La nostra società ha bisogno di cure, perché a fronte della realtà sempre più complessa e differenziata, invece di aprirsi al dialogo, cioè alla forma che permette alle differenze di incontrarsi senza abolirle, tende a rifugiarsi nell’uguale, ovvero allo stare insieme solo a persone che la pensano allo stesso modo. Anche gli stessi ragazzi che hanno provenienze etniche diverse seguono la stessa logica: tendono a rinchiudersi fra uguali. C’è invece bisogno di una profonda trasformazione culturale. Una provocazione che faccio da tempo è questa: i giovani non sono arrivati da Marte ma sono i figli e il risultato della cultura e dei processi educativi che abbiamo prodotto. Occupiamoci sì dei giovani, ma anche degli adulti. Se gli adulti rimangono infantili e non sviluppano una cultura differente, produrranno processi educativi che non funzionano. È chiaro che la responsabilità personale è dell’individuo ma la società dovrebbe avviare anche dei processi di cambiamento culturale che sviluppino la capacità delle persone di vivere la complessità e l’accettazione delle differenze e la loro percezione come una ricchezza dell’umano.