Da Il Segno di aprile
Con l’avvicinarsi delle date del test di ingresso a Medicina (28 maggio e 30 luglio) torniamo a chiederci se oggi in Italia il percorso per diventare medici sia equo, garantisca la qualità della formazione e, soprattutto, se sia in grado di assicurare il ricambio generazionale di una categoria numericamente in sofferenza.
Ma è proprio vero che nel nostro Paese ci sono pochi medici? Secondo la banca dati Ocse 2019, in Italia la percentuale di medici è di 4 ogni mille abitanti, un valore più elevato rispetto alla media Ue (3,5). Dati riconfermati in una nota Istat 2024, che ha collocato l’Italia circa a metà della classifica (14esima su 27) dei Paesi dell’Unione europea per numero di medici ogni 100 mila abitanti (410,4): peggio di Austria (540,9), Germania (453) e Spagna (448,7), ma meglio della Francia (318,3). Insomma, carenza sì, ma forse meno grave di quanto non si pensi. La penuria più grave riguarda semmai gli infermieri: sempre secondo i dati Ocse in Italia ce ne sono 5,5 ogni mille abitanti, molto al di sotto della media europea (8,9 per mille).
C’è da dire che il numero di medici in sé è poco indicativo, perché la reale copertura dei bisogni dipende anche da come sono organizzati il sistema sanitario e quello formativo. In Italia, un grave errore di programmazione nella formazione di sicuro c’è stato quando, una decina di anni fa, si decise di tagliare i posti nelle facoltà di Medicina, nella convinzione, dimostratasi poi errata, che la riorganizzazione del sistema sanitario avrebbe ridotto la richiesta di medici. Secondo i dati diffusi dall’Associazione libera specializzandi (Als), che supporta i giovani medici nel loro percorso formativo, tra il 2015 e il 2017 si è passati da 10 mila a 9 mila posti per gli aspiranti medici. Dopodiché c’è stata una graduale risalita, fino ai 18 mila posti del 2023, che sono da considerarsi un record.
Secondo Gian Vincenzo Zuccotti, ordinario di Pediatria e prorettore ai rapporti con le istituzioni sanitarie dell’Università degli Studi di Milano, l’errore di programmazione più grave ha riguardato però le Scuole di specialità: «Oggi abbiamo difficoltà soprattutto a reclutare specialisti, con carenza più marcata in alcune specialità. Medicina di urgenza, per esempio, è in forte sofferenza, ma anche pediatria, data l’alta richiesta, necessaria a coprire i due fabbisogni, ospedaliero e territoriale. Non che in questi anni siano mancati i laureati, ma si è creato quello che è stato definito un “imbuto formativo”, perché le borse di studio per le specialità erano largamente insufficienti rispetto ai laureati: ci sono state annate con solo 3-4 mila borse per tutto il Paese».
Che la coperta fosse corta è risultato evidente negli ultimi anni: sempre secondo dati Als, tra il 2015 e il 2022 sono andati in pensione 50.688 medici e sono usciti dalle Scuole solo 35.103 giovani con un saldo negativo di 15.585 unità. Si è corsi ai ripari dal 2019, quando il Ministero della Salute ha cominciato ad aumentare il numero dei posti per gli specializzandi. «Abbiamo avuto un picco di 18 mila posti, anche grazie ai fondi del Pnrr, mentre nell’anno accademico in corso ci siamo attestati sui circa 16 mila – spiega Zuccotti -. Ricordiamoci, però, che mediamente ci vogliono sempre tra i 4 e i 5 anni per formare uno specialista, gli effetti dell’incremento non sono ancora visibili».