Se n’è andato l’ultimo cavallo di razza della politica. Mino Martinazzoli si è spento domenica 4 settembre nella sua casa bresciana a quasi 80 anni (li avrebbe compiuti il 30 novembre). Un democristiano “atipico”, definito forse troppo semplicisticamente un uomo tormentato. Piuttosto viveva pienamente quel principio moroteo di non appagamento che un cristiano vero alimenta davanti alla politica. Uomo schivo in pubblico e gioviale in privato. Rigoroso, onesto e di grande cultura. Un oratore affascinante.
Comicia il suo impegno politico dalla sua amata Brescia (nasce a Orzinuovi, cittadina della provincia) e presto approda a Roma, come senatore prima e poi come deputato. Più volte è chiamato a compiti ministeriali (tra gli altri alla Giustizia e alla Difesa, che lascerà insieme ad altri quattro ministri contro l’approvazione della Legge Mammì che nel 1990 consacra il potere televisivo berlusconiano).
Figura di spicco della stagione del rinnovamento Dc guidata da Benigno Zaccagnini, “discepolo” di Aldo Moro, Martinazzoli ha proseguito quel grande filone culturale bresciano che va da Montini a Giovanni Bazoli. Espressione di un cattolicesimo liberale, riformista, solidale, laico, impegnato dalla parte dei più deboli, con l’unica bussola del bene comune. Insomma, una figura autentica di credente impegnato in politica. Un esempio in una stagione come quella attuale in cui da più parti si sollecita un rinnovato impegno dei cattolici in politica.
Martinazzoli ha incarnato la speranza. Il momento più alto è stato il congresso Dc del 1989, con un discorso di grande rigore morale, passato alla storia per i 20 interminabili minuti di applausi, che dicevano la grande voglia di cambiare per dare un futuro alla presenza politica dei cattolici. Eppure quel congresso sancisce la vittoria del Caf (Craxi, Andreotti e Forlani) che avrebbe portato la Dc alla disfatta.
Molti osservatori lo ricordano come il liquidatore della Dc, perché nel 1992 tocca a lui, nella disperazione generale, tentare di salvare quella storia politica. Martinazzoli non si tira indietro e traghetta da segretario la Dc nel nuovo Partito popolare, rivendicando con orgoglio genuino quella vicenda storica. Altro che liquidatore, ha salvato la presenza dei cattolici democratici.
Ha detto no a due prospettive inaccettabili per lui: aderire al berlusconismo, di cui aveva già colto tutta la carica dirompente fin dagli esordi e assolutamente “altra” rispetto alla presenza dei cattolici; allearsi con una sinistra autosufficiente e supponente che porta poi alla sconfitta clamorosa della “gioiosa macchina da guerra “ di Occhetto.
È stato nei fatti l’anticipatore dell’Ulivo e del Pd, come ha riconosciuto in questi giorni Romano Prodi. Anche se non sempre diversi passaggi nazionali lo avevano convinto. Innanzitutto quando si candida con un’inedita – per allora – coalizione di centrosinistra e diventa sindaco di Brescia nel 1994, quasi due anni prima della vittoria del primo Ulivo di Prodi. E quando, nel 2000, si candida alla presidenza della Regione Lombardia con una lista unitaria di centrosinistra, ben sette anni prima della nascita del Pd. È quella l’ultima e anche sfortunata competizione elettorale a cui partecipa. Continuerà il mandato di consigliere regionale fino al 2005. Poi si ritira nella sua Brescia, continuando la sua professione di avvocato, partecipando a incontri con i giovani. Sempre attento a quanto succede in Italia, anche se con un distacco ormai totale. La politica di oggi è infatti sideralmente lontana da un uomo come lui.
Un galantuomo della politica, un fine intellettuale (una passione in particolare per il Manzoni), esponente del cattolicesimo democratico che tanto ha dato a questo Paese. E che ancora può dare se nuove leve sapranno prendere ad esempio figure come Mino Martinazzoli.