Riformare il lavoro, ma facendo i conti con la recessione in corso. Questo il compito in cui si sta cimentando il governo Monti. La crisi preme sulle famiglie, che riducono le spese e tornano così ai livelli di trent’anni fa, mentre l’Istat rende noto che l’ultimo trimestre del 2011 ha registrato una contrazione del Prodotto interno lordo dello 0,7% mensile, lo 0,4% su base annua. In questo scenario, la riforma del lavoro proposta dal governo prevede riduzione delle forme contrattuali, assicurazione sociale, revisione degli ammortizzatori sociali (cassa integrazione e sussidio di disoccupazione) e maggiore flessibilità in uscita, superando l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Francesco Rossi fa il punto della situazione con l’economista Lorenzo Caselli, docente di etica economica all’Università di Genova.
Il dibattito sulla riforma del lavoro è acceso. Da cosa bisogna partire?
Partirei dalle tre parole d’ordine del governo Monti: rigore, equità e crescita. Come trovare la quadratura del cerchio? La leva è quella della crescita, altrimenti il rigore avrà un effetto boomerang e l’equità non si riesce a perseguire. Noi spesso guardiamo alle cifre e ai processi produttivi, ma non alle persone che vi stanno dietro, alle loro sofferenze, speranze e potenzialità. Potenzialità che potrebbero decollare con politiche economiche adeguate. Però oggi manca un’adeguata attenzione e sensibilità verso la politica industriale, legata al territorio, ai servizi reali. Lavoro e sviluppo, poi, devono essere declinati in maniera contestuale.
Sembra sempre più difficile, oggi, avere e mantenere il lavoro…
Il lavoro è un fondamentale diritto di cittadinanza. Certo, il sussidio di disoccupazione, l’assicurazione sociale servono, ma non sostituiscono il reddito da lavoro. E questo vale tanto per i padri, quanto per i figli, che guadagnano meno dei loro genitori. Secondo i dati diffusi di recente da Almalaurea, dopo un anno dalla laurea magistrale si ha circa il 50% di probabilità di trovare un lavoro, con un reddito mensile di 1.100 euro. Altri dati ci dicono della disoccupazione giovanile, dei 2 milioni che non studiano né cercano lavoro. Giovani sottopagati, con lavori precari, oppure che nonostante lauree e master non trovano nulla… È da costoro che bisogna partire per una politica di crescita.
Uno dei capitoli della riforma riguarda l’ormai famoso art. 18. Cosa ne pensa?
Il discorso è stato ideologizzato da entrambe le parti – imprenditori e sindacati – ma mi sembra un problema abbastanza irrilevante. Il numero di cause che invocano l’art. 18 è, in proporzione, modesto, mentre agli imprenditori è altro che, in realtà, interessa: i rapporti con la pubblica amministrazione e i tempi della burocrazia, il costo dell’energia ecc. D’altra parte i sindacati, e la Cgil in particolare, s’arroccano dietro l’art. 18 vedendo nella sua abolizione la cancellazione di un diritto fondamentale… Mi auguro che alla fine il buon senso possa prevalere: non ne facciamo una bandiera! Come pure non pensiamo che favorendo i licenziamenti aumenti il lavoro per i giovani: non è così, servono altre misure.
Alcuni interventi riguardano gli ammortizzatori sociali, per sostenere chi perde l’occupazione…
Mettere ordine tra gli ammortizzatori è un’operazione valida. Ben venga un’assicurazione sociale per l’impiego, a patto però che finiti i 12 mesi il dipendente abbia prospettive per un nuovo lavoro. Ma se la crescita non c’è è come il cane che si morde la coda. Serve dunque una politica che, più in generale, abbia come asse trainante lo sviluppo.
E la riduzione delle tipologie contrattuali?
Anche qui è positivo lo snellimento del bosco di forme contrattuali, se avviene con il coinvolgimento delle parti sociali e va a vantaggio dell’impiego a tempo indeterminato. Valido è pure l’intervento sull’apprendistato come forma di accesso per i giovani, purché unisca veramente lavoro e formazione, e venga introdotto anche per le alte professionalità, ad esempio coinvolgendo le università e i dottorati di ricerca.
Queste misure ci permetteranno di uscire dal guado?
Dobbiamo investire nell’intelligenza, nella ricerca e nella formazione. Investire poi nelle reti, nello sviluppo del territorio, ma pure in una migliore qualità di vita per tutti. In secondo luogo, serve fiducia tra i protagonisti dell’impresa e dell’economia, e sostenere la sussidiarietà. Terzo, occorre solidarietà.
Non c’è il rischio di una nuova ondata di delocalizzazioni, oppure del ricorso a tipologie di lavoro senza contratto di subordinazione, ovvero attingendo al “popolo delle partite Iva”?
Il rischio c’è, per questo serve gradualità: la saggezza politica sta nel saper armonizzare misure e tempi. Però chiediamoci perché in Germania, ad esempio, dove il costo del lavoro è superiore al nostro – nonostante un minore cuneo fiscale – le imprese non delocalizzano. Ci sono altri fattori da tenere in considerazione, come la qualità del capitale umano, i servizi, l’ambiente. Certo, se il nostro mix produttivo è qualitativamente povero la concorrenza c’è, ma nella misura in cui aumentiamo la qualità delle nostre produzioni possiamo considerarci abbastanza al riparo.