Il paradosso dei paradossi l’ha raccontato Donald Tusk, premier polacco. In partenza per il summit fra i governi europei svoltosi domenica 2 marzo a Londra, per cercare la quadra sull’Ucraina, ha detto: «500 milioni di europei chiedono a 300 milioni di americani di proteggerli da 140 milioni di russi». Per poi aggiungere: «Se dobbiamo contare qualcosa, dovremmo contare su noi stessi. Perché l’Europa è una potenza globale». Tusk guida un Paese minacciato dalla Russia e in prima linea (è il caso di dirlo) negli aiuti all’Ucraina e alla sua popolazione. A Londra, ospite assieme agli altri leader del premier britannico Starmer, ha chiesto unità e concretezza. Perché gli Usa non sembrano più affidabili e Trump, dopo aver umiliato Zelensky nell’agguato ordito alla Casa Bianca, strizza l’occhio a Putin.
Rutte, segretario generale della Nato, al momento sembra piegato sulle posizioni americane. Alcuni politici europei parteggiano per la Russia (l’ungherese Orban, lo slovacco Fico, e qualche altro personaggio di secondo calibro). L’Ue fatica a serrare i ranghi. Dunque, a chi affidarsi? Tusk richiama l’Europa a una sua missione storica. A Londra è parso chiaro che i veri protagonisti del momento sono Francia e Regno Unito (rientrante – pressato dagli eventi – nella famiglia europea, nonostante la Brexit). Macron e Starmer guidano i soli due Paesi con un arsenale nucleare e con eserciti potenti. Non è così per Germania, Italia, Spagna…
Se si attende una risposta solo muscolare è chiaro che Parigi e Londra hanno maggiore voce in capitolo. E trovano la sponda di Ursula von der Leyen. La presidente della Commissione ha ribadito ciò che predica da tempo: «Dobbiamo urgentemente riarmare l’Europa. E per questo presenteremo un piano completo per il riarmo il 6 marzo», al Consiglio europeo di questa settimana. In quella occasione i 27 dovrebbero discutere alcune ipotesi di finanziamento dell’“industria della difesa” – ovvero l’industria bellica – avanzate proprio dalla Commissione Ue (utilizzo del bilancio comunitario, nuovo debito comune, fondi della Banca europea degli investimenti…). È certo che qualche Paese si chiamerà fuori: è il tempo per un’altra “cooperazione rafforzata”, come per l’euro?
In tutto questo, l’incontro di domenica nella capitale inglese ha segnalato posizioni differenti tra i governanti europei, tra chi alza la voce verso Washington e Mosca, chi pretende di fare da ponte con l’amministrazione Trump, chi si tira indietro dando per persa l’Ucraina.
Certamente a Londra sono mancate forti voci di pace, quelle che dovrebbero insistere su una “pace equa e duratura” per l’Ucraina (compreso il rispetto della sua integrità territoriale e il risarcimento dei danni, almeno quelli materiali), da costruire responsabilmente attraverso una tregua immediata e un tavolo politico e diplomatico tra il Paese aggredito e l’aggressore russo, con la mediazione dell’Unione europea e magari dell’Onu. Ogni altra strada lascia intravvedere una escalation bellica che fa tremare i polsi.
Per colpa di Putin e dei suoi sodali – inutile girarci attorno, la responsabilità del disastro in corso è di Mosca – ci sono già stati troppi morti e feriti da ambo le parti. L’Ucraina è un Paese in lutto e distrutto; anche sul versante russo le giovani vite sacrificate sono tante, sempre e comunque troppe. Puntare sulla difesa e la deterrenza è una risposta. Ma non la vera risposta, che si chiama pace.