Oggi a Roma la Fondazione Migrantes ha presentato l’edizione 2021 del Rapporto sugli Italiani nel mondo.
Leggendo i dati sulla mobilità da e verso l’Italia emerge come la pandemia ha avuto importanti ripercussioni sulla popolazione italiana e su quella straniera presente nel nostro Paese. Secondo l’Istat, a inizio 2021, gli stranieri residenti in Italia ammontano a poco più di 5 milioni: dopo un ventennio di crescita ininterrotta anche la popolazione straniera si ridimensiona e non riesce più a compensare l’inesorabile inverno demografico italiano.
Considerando i diversi mesi di lockdown vissuti a livello nazionale, europeo e internazionale, per molti è stato praticamente impossibile spostarsi e questo ha inciso fortemente sui dati relativi all’andamento migratorio italiano, sia interno che verso l’estero.
L’Italia, in sintesi, è oggi uno Stato in cui la popolazione autoctona e la popolazione immigrata non crescono. L’unica Italia a crescere è quella che mette radici (e residenza) fuori dei confini nazionali in modo ufficiale – e quindi iscrivendosi all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (Aire) – o in modo ufficioso non ottemperando all’obbligo di iscrizione. A partire sempre più numerosi sono gli italiani di nascita e quelli per scelta, quindi naturalizzati, coloro che chiedono di diventare italiani e che, una volta ottenuta la cittadinanza, tecnicamente vengono chiamati “nuovi” italiani. Questi italiani, in realtà, di “nuovo” non hanno nulla, in quanto, per l’Italia e gli italiani le persone di origine non italiana arrivati nel nostro Paese o nati e cresciuti in Italia non sono né una realtà recente né appena conosciuta.
L’Italia che cresce è all’estero
Al 1° gennaio 2021 la comunità strutturale dei connazionali residenti all’estero è costituita da 5.652.080 unità, il 9,5% degli oltre 59,2 milioni di italiani residenti in Italia. Mentre l’Italia ha perso quasi 384 mila residenti sul suo territorio (dato Istat), la presenza all’estero è aumentata del 3% nell’ultimo anno.
La Sicilia con oltre 798 mila iscrizioni è la regione con la comunità più numerosa di residenti all’estero. La seguono, a distanza, la Lombardia (+561 mila), la Campania (quasi 531 mila), il Lazio (quasi 489 mila), il Veneto (+479 mila) e la Calabria (+430 mila). Sono tre le grandi comunità di cittadini italiani iscritti all’AIRE: nell’ordine, Argentina (884.187, il 15,6% del totale), Germania (801.082, 14,2%) Svizzera (639.508, 11,3%). Seguono a distanza le comunità residenti in Brasile (poco più di 500 mila, 8,9%), Francia (circa 444 mila, 7,9%), Regno Unito (oltre 412 mila, 7,3%) e Stati Uniti (quasi 290 mila, 5,1%).
Nel 2020 oltre 109 mila partenze
La mobilità degli italiani con la pandemia, quindi, non si è arrestata, ma ha subito un ridimensionamento che non riguarda, però, le nuove nascite all’estero da cittadini italiani, ma piuttosto le vere e proprie partenze, il numero cioè dei connazionali che hanno materialmente lasciato l’Italia recandosi all’estero da gennaio a dicembre 2020. In valore assoluto, si tratta di 109.528 italiani, oltre 21 mila persone in meno rispetto all’anno precedente. Il 54,4% (59.536) sono maschi, il 66,5% (72.879) celibi o nubili, il 28,5% (31.268) coniugate/i, il 2,2% divorziate/i (2.431).
Nel generale calo delle partenze (-16,3% rispetto all’anno precedente), le diminuzioni maggiori si riscontrano per gli anziani (-27,8% nella classe di età 65-74 anni e -24,7% in quella 75-84 anni) e per i minori al di sotto dei 10 anni (-20,3%). Crescono, invece, i giovani tra i 18 e i 34 anni (42,8%): nell’anno della pandemia, il protagonismo dei giovani italiani in mobilità aumenta, ma il “rischio” di uno spostamento è stato volutamente evitato dai profili più fragili, anziani e bambini.
Scelte 180 destinazioni
Degli oltre 109 mila connazionali che hanno spostato la loro residenza dall’Italia all’estero lungo il corso del 2020, il 78,7% lo ha fatto scegliendo l’Europa come continente. Nel loro complesso, le destinazioni scelte nell’ultimo anno sono state 180 e, tra le prime dieci, ben sette sono nazioni europee.
Tuttavia, l’unica nazione con saldo positivo, rispetto all’anno precedente, è il Regno Unito: +8.358 iscrizioni in più rispetto al 2020, +25,1% di variazione dal 2020 che diventa un aumento, in un anno, del 33,5%. Delle oltre 33 mila iscrizioni nel Regno Unito, il 45,8% riguarda italiani tra i 18 e i 34 anni, il 24,5% interessa i minori e il 22,0% sono giovani-adulti tra i 35 e i 44 anni. Si tratta, quindi, della presenza italiana tipica per il Regno Unito: giovani e giovani adulti, nuclei familiari con minori che la Brexit ha obbligato a far emergere – da qui la spiegazione dell’incremento registrato anche nell’ultimo anno nonostante la pandemia – attraverso la procedura di richiesta del settled status, un permesso di soggiorno a tempo indeterminato per chi può comprovare una residenza continuativa su territorio inglese da cinque o più anni, arco temporale che non deve essere stato interrotto per più di sei mesi su dodici all’interno del quinquennio di riferimento.
Gli italiani, quindi, durante l’annus horribilis della pandemia si sono trovati costretti a dover decidere se partire o no, se affrontare o meno i rischi di un’emergenza sanitaria globale raggirando gli ostacoli imposti dai protocolli rigidi attuati dalle diverse nazioni e relative ai limiti di spostamento intra ed extra un determinato territorio. Una parte ha preferito procrastinare il progetto migratorio – e da questo deriva la riduzione del numero complessivo delle partenze – e un’altra parte ha deciso comunque di non rinviare la decisione e, quando possibile, rispettando le disposizioni limitanti gli spostamenti, ha scelto di “restare vicino” – e quindi in Europa – più che andare oltreoceano.
Più decessi, meno pensioni
In tema di pensioni, l’effetto pandemia si è riscontrato con riferimento all’incremento del numero di pensioni eliminate per decesso nel 2020 rispetto al 2019. In Italia tale aumento è stato pari al 15,2%; all’estero, invece, la variazione percentuale si attesta a circa il 2%. È ragionevole presumere che la variazione più significativa sarà colta nel corso dell’anno 2021 quando saranno consolidati i dati relativi alle verifiche dell’esistenza in vita.
Nel corso del 2020, comunque, l’Inps ha pagato in tutto 13.816.971 pensioni e quelle all’estero (330.472) rappresentano circa il 2,4% del totale. Questa percentuale, che può sembrare poco significativa, per l’INPS ha un valore molto importante perché si è ben consapevoli che si tratta di un fenomeno in continua espansione considerando il costante aumento di partenze di italiani per l’estero. Questo trend genererà nuove pensioni da liquidare in regime di totalizzazione internazionale e da erogare non solo per chi torna in Italia dopo l’esperienza maturata altrove, ma anche a favore di chi decide di rimanere nel paese estero che l’ha ospitato. Non si tratta di una previsione a lungo termine: molti degli attuali emigrati, infatti, rientrano nella fascia d’età 40-50 e 50-60 anni. Ciò vuol dire che il numero delle pensioni interessate dalla totalizzazione internazionale è destinato molto presto ad aumentare in maniera considerevole.
Aumentano, inoltre, i pagamenti attribuiti a coloro che decidono di emigrare in altri paesi da pensionati (negli ultimi 5 anni +21,1%), scelta motivata da differenti obiettivi: seguire i figli che hanno trovato lavoro fuori dall’Italia, beneficiare dei vantaggi fiscali offerti da altri Stati, o, semplicemente, godere di un clima o di un ambiente differente da quello che si è lasciato alle spalle. Già oggi si assiste ad un primo passaggio di consegne: la platea dei pensionati all’estero che deriva da migrazioni del passato, viene integrata da quella che appartiene ad una nuova e più recente ondata migratoria. Questa si differenzia dalla prima sotto vari aspetti: le destinazioni di pagamento, le tipologie di pensione e, non da ultimo, la nazionalità dei percettori. Mentre, infatti, le migrazioni più antiche stanno dando luogo principalmente al pagamento di pensioni ai superstiti, soprattutto a donne di origine italiana e in paesi quali Nord America, Argentina, Brasile, Australia, ma anche Francia, Germania, Belgio e Svizzera, quelle più recenti si caratterizzano per essere riscosse presso nuovi Stati di destinazione, sia in Europa, in particolare nell’Est europeo, sia nel continente africano e asiatico, luoghi che, fino a qualche tempo fa, non erano registrati negli archivi Inps.
Chi è rientrato in Italia
A metà settembre 2020, secondo i dati del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (Maeci), la Farnesina aveva ricondotto in patria quasi 111 mila connazionali attraverso oltre mille operazioni terrestri, aeree e navali che avevano interessato ben 180 paesi del mondo. Un’operatività che ha richiesto un impegno senza precedenti da parte delle sedi diplomatiche in coordinamento col Maeci, sorprese dal virus come tutti e interessate esse stesse da possibili contagi.
Il quadro dei rientri è molto complesso ed è possibile individuare diversi profili. Il blocco totale degli spostamenti ha fatto collassare il settore turistico soprattutto per quei luoghi che vivono, quasi esclusivamente, della presenza di viaggiatori e turisti come il Marocco, la Spagna e diversi altri. Gli italiani residenti più ufficiosamente che ufficialmente all’estero e occupati nei settori connessi al turismo – agenzie di viaggi, tour operator, ma anche il mondo alberghiero e della ristorazione – sono stati travolti dall’emergenza sanitaria che per loro è diventata anche emergenza di sopravvivenza. Moltissimi italiani proprietari di ristoranti nel mondo sono riusciti a resistere, alcuni si sono dovuti reinventare l’attività oltre la riconversione verso l’asporto come tutti, ma chi lavorava come dipendente in questo settore specie se da poco tempo perché di recente arrivo all’estero o inserito con contratto a tempo determinato, o non regolare, o a nero, non ha avuto scampo ed è stato falcidiato dall’epidemia. In tantissimi hanno perso il lavoro e l’unica strada percorribile era fare ritorno a casa. In generale, comunque, il progetto migratorio acerbo unito a un inserimento occupazionale non certo, instabile o irregolare sono state due delle caratteristiche che hanno spinto fortemente al rientro sia dall’estero sia per chi si trovava in un’altra regione d’Italia rispetto a quella di origine. Al ritorno dei lavoratori precari che si trovavano nella condizione di mobilità interna, si è unito quello dei lavoratori pendolari e la grande questione dei frontalieri.
Il caso del Canton Ticino è in questo senso emblematico, con i lavoratori costretti a dover scegliere tra salute e lavoro, tra affetti e responsabilità professionale in un momento in cui la Lombardia era piegata e sconvolta dal virus e la Svizzera sembrava essere immune. Alcuni datori di lavoro ticinesi hanno messo gratuitamente a disposizione dei loro dipendenti stanze d’albergo, lasciando loro la libertà di scegliere tra il rientro a casa e la permanenza nel Cantone, ma altri non hanno dato alcuna scelta, anzi li hanno invitati a non rientrare. Tra ricatti morali e opportunità ricevute con l’ospitalità di familiari o conoscenti quello che è emerso con forza è quanto il Ticino sia legato indissolubilmente al lavoro frontaliero, in quanto nelle mani di questi lavoratori si trovano alcuni dei settori nevralgici – e resi ancora più decisivi dalla pandemia – quali la sanità e la grande distribuzione. Il Ticino è solo un esempio, forse il più vicino geograficamente parlando, ma la questione frontalieri italiani ed europei è uno dei grandi temi della mobilità di oggi.
Lo Speciale 2021
Il tema portante dell’edizione 2021 del Rapporto è l’emergenza sanitaria che attraversa tutte le sezioni. Il volume è costruito, inoltre, sul continuo rimando tra mobilità italiana interna e mobilità italiana all’estero. Dallo scoppio della pandemia tutta una serie di costanti hanno cambiato aspetto e nuovi elementi si sono palesati. È quanto i 75 autori dell’edizione 2021 hanno messo in risalto nei 54 saggi che compongono il volume. Per la prima volta dal 2005 coloro che scrivono dall’estero sono più numerosi di quelli che lo hanno fatto dall’Italia. Una redazione, quindi, sempre più transnazionale, multidisciplinare e multisituata. Sono state coinvolte 16 diverse realtà accademiche dell’Italia (da Sud a Nord) e del mondo (Europa, Australia e America del Sud), oltre che molteplici altre realtà, istituti di ricerca, associazioni, strutture istituzionali, pubbliche e private, mondo sindacale e patronati.
Un volume corale arricchito dall’analisi di 34 città del mondo – Algeri, Barcellona, Berlino, Bruxelles, Buenos Aires, Casablanca, Colonia, Dakar, Dublino, Ginevra, Johannesburg, Libreville, Londra, Madrid, Manchester, Mar del Plata, Marrakech, Melbourne, Monaco di Baviera, Montevideo, Montreal, Nairobi, New York, Osaka, Oslo, Parigi, Pechino, Perth, Rabat, San Paolo del Brasile, Sidney, Tokyo, Toronto, Vienna – e di come gli italiani residenti in queste città, ufficialmente o meno, hanno affrontato l’epidemia mondiale vivendo l’isolamento, il paradosso di dover essere immobili nella mobilità e l’avvento delle nuove forme di digitalizzazione e virtualità diffusa.
Ne emerge un viaggio intorno al mondo, ma, cosa più importante, dalla lettura si ha la possibilità di mettere a confronto gli interventi messi a punto da ciascuna realtà geografica a seguito dell’esplosione della pandemia e le reazioni che questi interventi hanno prodotto nella comunità degli italiani lì residenti. Ogni città analizzata presenta un caso a sé. Ogni saggio parte dal mettere insieme i dati e si arricchisce della raccolta di soggettività continuando a scrivere la storia di un paese, l’Italia, e di un popolo, gli italiani, in mobilità e sempre più in crescita fuori dei confini nazionali anche e nonostante la pandemia. Per gli italiani in mobilità il Covid-19 ha significato fare una verifica a tutto tondo: immersi nell’immobilità obbligata dovuta ai lockdown, riscoprirsi con la testa e la personalità stabilmente in movimento.