Sono tantissime le donne che arrivano incinte sulle coste italiane dopo aver fatto il viaggio sui barconi rischiando la vita. Se sono sole, senza un marito o un compagno, tra gli operatori impegnati nei soccorsi scende il gelo. C’è una sola domanda diretta che non possono mai fare: «Sei stata vittima di violenza?». Purtroppo, però, con il tempo, e con l’assistenza di psicologi e mediatori culturali, le storie drammatiche escono fuori. Nel deserto africano o nelle carceri libiche, la maggioranza delle donne che viaggiano sole, o con mariti fragili non in grado di proteggerle, subiscono molestie e violenze sessuali. E non solo le donne. Anche i minori non accompagnati, gli adolescenti maschi. Nel 2014 ne sono arrivati ben 12 mila. Chi esercita il potere durante i “viaggi della speranza”, trafficante o smuggler che sia (la distinzione è tra chi usa la coercizione nella tratta di esseri umani o coloro ai quali i migranti si affidano in maniera consapevole), abusa della propria supremazia sui più deboli. Per non parlare delle forze di polizia nei centri di detenzione libici dove vengono rinchiusi gli immigrati irregolari. Gli uomini vengono picchiati e torturati. Le donne subiscono violenze. Unica, flebile, possibilità di sfuggire a questo tragico destino è riuscire ad organizzare forme di protezione, quando partono con i mariti o con una piccola comunità.
Testimoni e protagonisti dell’orrore
Un recente rapporto di Amnesty international denuncia gli abusi nei centri libici. «Ci picchiavano con i tubi di gomma, non risparmiavano neanche le donne incinte – racconta una testimone -. Di notte entravano nelle nostre stanze e cercavano di dormire con noi. Alcune di noi sono state stuprate e una è rimasta incinta. Ecco perché ho deciso di partire per l’Europa: ho sofferto troppo in prigione». In altri casi le donne vengono rapite da trafficanti e bande criminali. Chi non è in grado di pagare il riscatto viene obbligato a fare sesso in cambio del rilascio o del permesso di proseguire. «Il trafficante aveva tre donne eritree – dice una testimone -. Le ha violentate, loro piangevano. È successo almeno due volte». Una donna nigeriana ha raccontato di essere stata vittima di uno stupro di gruppo da parte di 11 uomini appartenenti a un gruppo armato appena arrivata nella città di Sabha: «Ci hanno portato fuori città, nel deserto. Hanno legato mio marito a un palo per le mani e le caviglie e mi hanno stuprato davanti ai suoi occhi». Anche Tareke Brhane, eritreo, presidente del Comitato 3 ottobre, quando descrive i suoi cinque terribili anni di viaggio tra carcere, deserto e mare ricorda che «le donne erano tutte stuprate davanti ai nostri occhi, anche le mamme e sorelle». Si sa di ragazze eritree che prima di partire, vagamente informate dei rischi del viaggio, sono costrette ad assumere contraccettivi per evitare gravidanze indesiderate. Anche se in realtà, da indagini realizzate tra i profughi, nessuno avrebbe mai immaginato che il viaggio sarebbe stato così duro. Eppure la percentuale di chi non tornerebbe indietro è altissima: la situazione di partenza nel Paese da cui partono spesso è ancora peggiore.
Aumenta il clima di violenza
«Negli ultimi tempi dai racconti degli uomini emerge un aumento esponenziale del clima di violenza – spiega Alessandra Diodati, direttore sanitario dei progetti di assistenza migranti della Croce rossa italiana -. I migranti vengono spinti a salire sui barconi sotto la minaccia delle pistole, anche con il mare grosso, con le onde forza 8. Botte e torture agli uomini, violenze sessuali sulle donne». Al momento dello sbarco le donne incinte vengono prese in carico dal sistema di accoglienza e inizia un percorso delicatissimo. «Importante è creare un clima di fiducia e rispetto profondo, in modo tale che le donne siano libere sulle decisioni da prendere – precisa Diodati -. Il punto critico sono i servizi sanitari: abbiamo delle eccellenze, come il San Camillo di Roma, con psicologhe preparate che seguono queste donne. Ma a volte nei piccoli centri non c’è una mediazione culturale in grado di garantire certi standard di assistenza».
Se la donna denuncia di essere stata trafficata e di aver subito violenza allora ha diritto alla protezione internazionale. «Ma dovrà rivivere il dramma raccontando tutto davanti alla Commissione territoriale, alla polizia, eccetera». In alcuni Cara (Centri per l’accoglienza dei richiedenti asilo) le donne in gravidanza partecipano anche a corsi di preparazione al parto insieme alle italiane, oppure usufruiscono di kit di materiali per mamma e bambino. Sono comunque situazioni difficili, e l’aiuto all’inserimento sociale e all’integrazione dipende molto dalla qualità dell’accompagnamento personalizzato che ricevono. Ciò che rimarrà per sempre, saranno le ferite invisibili, profonde, nell’anima.