«L’occupazione deve essere il cuore della politica economica». Mauro Magatti, sociologo dell’Università cattolica di Milano, riflette sulla questione lavoro alla vigilia del Giubileo dei lavoratori del 28 aprile e della festa del Primo maggio. E pone al centro dell’impegno di istituzioni politiche e società civile l’occupazione, soprattutto di una generazione di giovani che rischia di rimanere fuori dal mercato. Così l’Italia si gioca il proprio futuro.
Gli ultimi dati registrano una forte percentuale di disoccupazione, in particolare giovanile. Come leggere il mondo del lavoro che sconta ancora una pesante crisi economica?
In questi anni si è parlato tanto di crisi, di ripresa e di finanza. Di fronte a questi dati dell’occupazione, in particolare giovanile, è necessario dire che la politica economica deve avere questo come obiettivo. Negli anni ’50 e ’60 l’obiettivo era la piena occupazione. Deve tornare ad essere così anche nei nostri giorni: non ci può essere una politica economica che non abbia questo come oggetto principale. Altrimenti si promuovono tante iniziative, ma che non sono quelle più importanti.
Il Jobs Act ha creato 1,4 milioni di posti di lavoro a tempo indeterminato. Secondo lei sono legati agli incentivi o sono questi i provvedimenti strutturali che necessita il mercato del lavoro italiano?
Il Jobs Act sicuramente è stata una legge positiva, come altre iniziative del governo. Ma non sono sufficienti perché sappiamo che l’Italia, ma anche l’Europa, ha una serie di altri problemi che devono essere affrontati passo dopo passo. L’occupazione deve essere il cuore della politica economica, è chiaro che questo ha a che fare con l’organizzazione complessiva della vita sociale, economica, con la capacità di non sprecare le risorse, di combattere le ingiustizie e le inefficienze contemporaneamente. Non si raggiunge la piena occupazione se non si risolvono queste distorsioni.
I Vescovi italiani nel documento in vista del 1° maggio parlano di non sprecare il talento dei giovani. Addirittura si paventa il rischio di perdere una generazione…
Anche in base ai dati dell’ultimo Rapporto giovani possiamo porre così la domanda: perdiamo una generazione oppure è l’Italia che perde il suo futuro? È questa la questione. Il blocco che si è venuto a creare negli ultimi decenni rispetto alla crescita si sta scaricando su una generazione. Sappiamo che soprattutto al Nord molti ragazzi stanno andando via, in particolare tra i laureati, tra quelli di fascia alta del mercato del lavoro. Invece nella fascia medio/bassa diventano Neet, cioè ragazzi che non studiano e non lavorano. Questo ci deve interrogare seriamente, perché vuol dire che quello che abbiamo fatto finora non è sufficiente. Aggiungo anche che, oltre alle politiche del governo (economica, industriale, dell’occupazione) è però necessaria anche una società (con un profilo demografico molto diverso da quello del passato) che ha accumulato comunque ricchezza, beni e risorse. È molto importante che in questo momento si trovino le forme per mettere in gioco i patrimoni pubblici, privati, anche ecclesiali a servizio delle nuove generazioni per recuperare uno slancio che da solo non si riesce a dare.
Il sistema pensionistico non regge e quindi si prolunga l’attività lavorativa delle persone. Questo vuol dire che l’entrata nel mondo del lavoro dei giovani diventa sempre più difficoltosa?
Non farei un accostamento così netto. Questo argomento nel passato è stato utilizzato per dire “facciamo uscire prima i lavoratori con varie forme per fare entrare i giovani”. No, non è così, non c’è semplicemente una contrapposizione giovane e vecchio, non c’è una guerra intergenerazionale. La società è come un organismo, deve avere i suoi equilibri, anche nei rapporti tra le generazioni. L’Italia è l’esempio invece di una società e di una economia che non sono state capaci di costruire questi equilibri. Nel nostro Paese si vive più a lungo che in altre realtà: è un aspetto positivo, solo che deve essere accompagnato da politiche intelligenti, che adesso si stanno cercando di introdurre, legate alla mobilità della pensione piuttosto che canali e strumenti che facilitano l’ingresso dei giovani. Invece di una contrapposizione bisogna usare gli strumenti di cui disponiamo perché la società trovi il suo equilibrio.
Il Giubileo dei lavoratori nella Basilica di Sant’Ambrogio: come si possono coniugare nel mondo del lavoro misericordia e giustizia?
La giustizia è un principio che la nostra cultura occidentale, ma non solo, riconosce che si basa sulla ragione, ha un principio universalistico che è l’anima che la orienta. La misericordia invece è la ragione del cuore, ha a che fare con vicinanza, sofferenza, dolore, immediatezza di una situazione, perdono. Guardando le nostre società diciamo che la ragione dell’intelletto e quella del cuore, in questo caso della giustizia e della misericordia, sono ingredienti fondamentali per costruire una società umana. Però il lavoro non è solo una questione di contratto e di diritti – e in Italia su questo abbiamo molti problemi -, ma anche una comunità di persone, un luogo in cui questo elemento umano non può essere cancellato.