Di loro non si è occupato nessuno per anni, a cominciare dagli inizi del Duemila quando è entrata in vigore la legge Biagi. Quella che sulla carta promuoveva la flessibilità, ma che nel quotidiano italiano era diventata una fabbrica di precarietà. Stiamo parlando di tutti coloro che non hanno un contratto di lavoro a tempo indeterminato e, nel contempo, non siano dei professionisti, imprenditori o artigiani “veri”. Sono soprattutto i giovani, che hanno visto rapidamente accentuarsi il divario di tutele e di diritti tra loro e i “garantiti”, nel senso che loro non ne avevano mezzo, di diritto.
Orbene, le cose stanno cambiando, rapidamente e decisamente. In linea con il fatto che il loro numero è diventato spaventoso. Difficile quantificarli, perché fluttuano tra lavoro e disoccupazione (o sottoccupazione), tra regole e “nero”, tra forzature di vario tipo – si pensi alla giungla degli stages – e partite Iva finte. Cioè rapporti di lavoro mascherati da “collaborazioni” esterne. Già il Jobs Act, che in troppi hanno guardato dal lato di cosa toglieva ai garantiti e poco di ciò che aggiungeva al resto dei lavoratori, ha creato un meccanismo di stabilizzazione lavorativa e di accantonamento di certe forme legalizzate di precarietà. Un’assunzione è pur sempre un’entrata dalla porta principale nel mondo del lavoro, anche se non ha le tutele di prima.
Ma la recente manovra, la Legge di Stabilità, appare ancora più attenta a questo mondo, che è quello in cui si riversano quasi tutti i giovani. Le piccole partite Iva vengono favorite a livello fiscale con una tassazione bassa e forfettaria, così da poter realmente decollare; chi fa un secondo lavoro, ma con fattura, viene posto in condizioni migliori rispetto alla scelta alternativa di fare tutto in “nero”, se gli è possibile. Maggiori tutele pure se non dovessero essere pagati dai committenti, spesso assai smemorati e pigri al momento di saldare fattura.
Per non parlare di certe tutele che trasportano molti di questi lavoratori dal Terzo mondo almeno al Secondo. Si estendono le tutele per la maternità (praticamente inesistenti per le donne non “protette” da contratti), si introduce anche in questo pianeta il congedo parentale; si prevede la sospensione del pagamento dei contributi nel caso di malattia grave (quella che impedisce l’attività per oltre 60 giorni). Gravidanza, malattia e infortunio non comportano l’estinzione del rapporto contrattuale, che rimane sospeso per un certo lasso di tempo, senza il pagamento dei corrispettivi.
E altro ancora, che però ora deve passare al vaglio del Parlamento: si spera che certe piccole conquiste civili non siano cancellate proprio qui, vista l’enorme fatica che gli “atipici” fanno per lavorare in condizioni minimamente dignitose. Perché quasi sempre non sono scelte di vita, indici di un individualismo che si esprime in certe forme lavorative; se fosse così, si vedrebbe da una cartina di tornasole infallibile. Il lavoro autonomo, infatti, per essere tale, dovrebbe essere più lucroso di quello dipendente. Non ci sono orari, ognuno è “imprenditore di se stesso”. Se lo fa per guadagnare 800 euro al mese (a singhiozzo), forse le motivazioni sono ben altre e le dinamiche lavorative ben diverse.