La riforma del lavoro non può prescindere dal periodo di crisi. Questo il parere dell’economista Luigi Campiglio, docente all’Università Cattolica, che ne dà una lettura in chiaroscuro: in tempi “normali” sarebbe accolta diversamente, con meno critiche. Ma ora, appunto, non è un tempo “normale”.
I tempi rapidi con cui si sta muovendo il Governo nel riformare il mercato del lavoro sono lodati da alcuni, biasimati da altri. Cosa ne pensa? Qual è, a suo avviso, la logica che anima l’esecutivo?
La filosofia della riforma è favorire gli ingressi, specialmente a tempo indeterminato, e consentire le uscite. Ciò premesso, arriva in un momento giusto se si considera l’esigenza di dare una risposta alle perturbazioni dei mercati finanziari, sbagliato se si tiene conto del periodo di crisi. Una riforma di questo genere in tempi normali avrebbe avuto un’accoglienza diversa e migliore. Il modello messo a punto dal governo Monti funziona se creiamo un mercato del lavoro mobile, nel quale chi esce – con il sostegno di una rete sociale di qualche tipo – è in grado di trovare una nuova occupazione in tempi ragionevoli.
Ma i dati sulla disoccupazione sembrano darci un diverso quadro della situazione…
Appunto. Siamo più vicini al modello statunitense che a quello tedesco, e in un momento di crisi epocale. Il problema è che questa crisi anche negli Usa ha creato una frattura senza precedenti nel mercato del lavoro, con la disoccupazione di lunga durata che ha raggiunto livelli mai visti dalla seconda guerra mondiale. In condizioni normali, con un’economia dinamica, invece, sarebbe nell’interesse comune spostare i lavoratori da settori in declino ad altri in ascesa.
Nel medio periodo quali saranno gli effetti di questa riforma?
L’interrogativo di fondo è se questo modello, che oggi permette al governo di essere un interlocutore forte al tavolo degli investitori internazionali, consente pure la crescita. In altre parole, la tempesta ora è stata placata e se tra 18 mesi l’economia europea, e quella italiana in particolare, avranno ripreso a crescere, allora i creditori esteri confermeranno la loro fiducia. In caso contrario, rischiamo di tornare al punto di partenza.
Questa riforma stimola la crescita?
Non è scontato. Adesso è prioritario ridare ossigeno alle piccole e medie imprese italiane per farle vivere, dare loro possibilità di accedere al credito, sbloccare i fondi degli enti locali e così via. È qui, prima ancora che sulla riforma del lavoro, che si gioca il successo dell’esecutivo.
La riforma si propone di superare diverse tipologie contrattuali, a favore di un contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato. Un passo in avanti o, viceversa, una retrocessione rispetto a forme lavorative che hanno visto la luce di recente?
Secondo l’Eurostat in Italia un lavoratore su 5, il 20% del totale, è in proprio: una percentuale abnorme, in larga parte dovuta a forme di lavoro instabili, precarie. Ora, la proposta del governo in condizioni normali potrebbe portare in luce situazioni d’irregolarità e trasformare i rapporti precari in contratti a tempo indeterminato. Ma non dimentichiamo la crisi, e la difficoltà delle aziende. Il rischio che si trovino scappatoie è reale, come pure che la produttività non venga incentivata.
Come vede i rapporti tra governo e sindacati?
Dobbiamo trovare modalità nuove: abbiamo bisogno di responsabilità sindacale, forme di solidarietà tra imprese e lavoratori. Per la tradizione sindacale italiana un clima di condivisione fatica a emergere: i sindacati restano più facilmente arroccati in una posizione di contrapposizione anziché aprirsi al dialogo. Ognuno deve fare il suo dovere e la responsabilità del sindacato non sta solo nel difendere il lavoratore a tutti i costi, quanto piuttosto nel sanzionare lui per primo comportamenti dei singoli contrari all’etica del lavoro, che alla fine si ripercuotono e danneggiano tutti.
L’articolo 18 continua a essere motivo di scontro…
Ormai è diventato un fatto politico, mentre gli imprenditori che incontro mi raccontano che sono ben altre le difficoltà. L’idea che ci debba essere una ragionevolezza nei licenziamenti è fondamentale, ma va al di là dell’articolo 18. Pensiamo a tutte quelle piccole-medie imprese, che hanno fino a 15 dipendenti: lì la giusta causa si applica nei fatti, non per una norma.