Dal punto di vista del rapporto tra secolarizzazione e Europa cristiana, credo che sia necessario chiarire il più possibile in che cosa sia consistita la cosiddetta secolarizzazione. Spesso se ne parla nel senso di privatizzazione della religione, indifferenza religiosa, laicismo, oppure di diritti umani, libertà religiosa, laicità dello Stato. Tutte questioni che sicuramente hanno a che fare con la secolarizzazione, ma che non la definiscono, perché ne sono piuttosto effetti.
Non è facile definire un processo di enormi proporzioni come è stata la secolarizzazione moderna, che ha investito l’intero assetto della cultura europea e poi occidentale. Tuttavia già è importante rendersi conto che non si tratta di un fenomeno che ha le sue origini nella cultura europea del XVI secolo. Questo ci mette sull’avviso che nei confronti della secolarizzazione non si può pensare che basti decidere qualche breve strategia culturale o pastorale per farvi davvero i conti. D’altra parte, è anche vero che forse della secolarizzazione si deve parlare al passato, come di un grande processo che ha ormai esaurito le sue possibilità trasformatrici ed anche creative, benché i suoi effetti proseguano nell’oggi e ancora proseguiranno a lungo, come le onde lunghe dell’evento originario.
Il fenomeno della secolarizzazione non nacque come lotta di contrasto al cristianesimo, ma piuttosto come una sfiducia fondamentale (una «delegittimazione», direbbe H. Blumenberg) nei confronti della capacità della fede cristiana di essere centro ispiratore della vita degli uomini, così come lo era stato invece nel millennio precedente. Al centro sta dunque una delegittimazione culturale dell’umanesimo cristiano, così profonda da essere accompagnata da una volontà di supplire a tale umanesimo con nuove forme di vita e di pensiero, dapprima aggiuntive, poi sempre più sostitutive di quelle del cristianesimo stesso.
Così, progressivamente la modernità si è venuta configurando come un grande laboratorio di ipotesi di civiltà sempre più in discontinuità con l’umanesimo cristiano, fino a divenire alternative e avverse (di cui esempi estremi furono le ideologie totalitarie del XX secolo). Ma in questo processo prima di sostituzione del e poi di avversione all’umanesimo cristiano avviene anche un radicale revisione dell’intero umanesimo occidentale, in cui da una parte l’uomo senza Dio prova la sua metafisica solitudine, dall’altra sperimenta la sua finitezza radicale; in breve, è l’intero universo del senso dell’esistenza e della storia che va in frantumi: l’«umanesimo esclusivo» (di Dio e del senso, Ch. Taylor) finisce per espellere anche l’uomo stesso. Inizia l’era del nichilismo, giunto al quale la secolarizzazione, come processo attivo, giunge anch’essa al suo termine (non avendo più nulla da secolarizzare).
Questo naturalmente non significa che gli effetti della secolarizzazione siano venuti meno; al contrario, si espandono e si combinano senza controllo in forme sempre nuove e insieme sempre uguali. Perché il nichilismo non è un teoria in più, ma una chiave di lettura e si alleggerimento del senso di tutto, da cui sono intaccati anche i prodotti migliori della secolarizzazione (libertà di coscienza, libertà religiosa, diritti umani, democrazia, eccetera), che infatti sono oggi sempre meno in grado di giustificare se stessi. La sfida della secolarizzazione è così riportata al suo principio: l’Occidente deve arrendersi all’esito antiumanistico della sua storia? E l’umanesimo cristiano è capace di rilegittimarsi nell’epoca postsecolare?