L’8 novembre si voterà il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America. Ma la data sarà solo l’esito finale di una delle più importanti e affascinanti partite politiche mondiali perché la lunga corsa alla Casa Bianca passerà prima per il Super Tuesday di domani. Tradotto letteralmente, significa “Super Martedì”: si intende il giorno in cui in diversi Stati americani (15) si recheranno alle urne democratici e repubblicani per decidere i loro candidati ufficiali alle elezioni presidenziali. Sebbene la storia passata abbia dimostrato che in politica tutto è sempre possibile, solitamente il Super Tuesday rappresenta una tappa fondamentale e decisiva per conoscere le sorti degli Stati Uniti. Ma quale ruolo hanno svolto le religioni in questa prima parte della battaglia elettorale? Lo abbiamo chiesto a Paolo Naso, professore di scienze politiche all’Università La Sapienza di Roma e visiting professor alla Wake Forest University e al Davidson College (North Carolina). Ha scritto anche un libro “God Bless America. Le religioni degli americani”.
Donald Trump ha detto: «Sono un presbiteriano e sono orgoglioso di esserlo. Molto orgoglioso». Perché un candidato alle presidenziali sente il bisogno di esporsi in questo modo?
«Questa frase va contestualizzata nella particolare cultura americana dove l’elemento religioso ha una rilevanza nel discorso pubblico che noi qui in Europa fatichiamo a comprendere. Nel senso che il grande paradosso americano è che da una parte vige un sistema di separazione netto tra Stato e confessioni religiose ma dall’altra il discorso religioso entra prepotentemente nel dibattito pubblico. Da questo punto di vista, non c’è nessuna eccentricità di Trump ed è abbastanza normale che presidenti o candidati spieghino la loro collocazione religiosa, facciano frequenti riferimenti biblici, adottino delle forme retoriche ispirate alla tradizione cristiana».
Trump si definisce presbiteriano. Ma chi sono i presbiteriani d’America?
«I presbiteriani sono una componente storica del protestantesimo americano di tradizione calvinista di matrice scozzese. Ora però bisogna capire. Esistono diverse Chiese presbiteriane. La più importante è la Presbiterian Church Usa che conta quasi 3 milioni di membri ed è una Chiesa di orientamento progressista e su temi come la pace, la guerra, le migrazioni, i diritti delle coppie omosessuali ha preso posizioni nettamente diverse da quelle di cui Donald Trump si fa interprete».
Quindi tra le Chiese e i loro presidenti la sintonia di pensiero non è scontata?
«La dialettica è un classico. Ecco qualche esempio. George Bush padre era episcopaliano ma la Chiesa anglicana degli Usa condannò fortemente la sua politica militare. George Bush figlio aveva delle vaghe relazioni con la Chiesa metodista e la chiesa metodista in numerose occasioni ha criticato quello che faceva. Lo stesso Barack Obama viene dalla United Church of Christ e anche lui ha avuto problemi con il suo pastore tanto da doverne prendere le distanze quando ha espresso posizioni molto radicali su temi legati alla razza».
E il pubblico americano come si orienta dal punto di vista “religioso” nel scegliere il suo candidato?
«L’idea di una nazione cristiana è obsoleta e del tutto incoerente con la realtà. In America ci sono importanti componenti ebraiche (5 milioni) e importantissime presenze islamiche. Ci sono i sikh, i seguaci delle religioni orientali, i nativi d’America. E modi eccezionalmente diversi di essere cristiani. Il mosaico religioso americano è uno degli elementi, di questo Paese, di maggiore fascino».
E la comunità cattolica Usa?
«Conta oltre 60 milioni di persone ed è la comunità più importante di tutto il Paese anche perché i protestanti sono sì, più numerosi, ma sono divisi in diverse denominazioni. Per quanto influente, la comunità cattolica è vista come una voce tra le altre e in alcuni ambienti conservatori del mondo protestante ed evangelico-radicale, addirittura come una presenza problematica rispetto ai valori fondanti della società americana».
In che senso?
«Permane nella società americana un sospetto sul fatto che la presenza cattolica non sia fino in fondo radicata nella società americana e che i cattolici siano leali oltre che alla nazione anche al Papa, con una sorta di ambigua doppia affiliazione».
Il caso Trump?
«Mi pare di poter dire: tanto rumore per nulla. Lui ha un bisogno disperato di acquisire notorietà e quindi anche un confronto muscolare con una persona nota come papa Francesco lo ha portato a una ribalta internazionale che ricercava. Mi pare poi che il fatto religioso – nel suo caso specifico – non sia decisivo quanto invece lo è per un candidato come Ted Cruz che può contare sul mondo cattolico e ispanico».
Le sue speranze per questo appuntamento elettorale Usa?
«La mia speranza è che prevalga una idea inclusiva della società americana. Grande è stata la storia degli Stati Uniti perché ha saputo accogliere identità e comunità diverse e le ha fatte confluire in quello che gli americani chiamano il “Mainstream”. In questo momento, però, sono estremamente popolari le spinte che invocano esclusione, difesa, islamofobia, politica estera aggressiva. È evidente che Donald Trump interpreta questa domanda al meglio e nel modo più populista. Il paradosso è che i valori veri e tradizionali dell’America non sono quelli dell’esclusione ma quello dell’inclusione. Speriamo allora che prevalga il cuore dell’America».