Quella che, dall’1 febbraio, si sta consumando in Myanmar è una tragedia che coinvolge un intero popolo. Purtroppo sin qui non ha scosso l’opinione pubblica e, di riflesso, non è diventata una priorità per la comunità internazionale. Con l’eccezione di papa Francesco, che in pochi mesi ha levato per sei volte la sua voce chiedendo pace per il Myanmar, il popolo birmano si sente abbandonato dai grandi della terra.
Ma cosa sta avvenendo nel Paese che fino al 1989 chiamavamo Birmania? L’1 febbraio scorso, in concomitanza con l’insediamento del nuovo governo, eletto democraticamente nel novembre 2020, il regime militare, guidato dal generale Min Aung Hlaing, ha arrestato il presidente in carica Win Myint, la leader democratica Aung San Suu Kyi e diversi membri del governo. I militari – che hanno tenuto in pugno il Paese per lunghi anni (dal 1962 al 2015) – si sono così ripresi il potere con la forza e stanno schiacciando le proteste nel sangue. A oggi sono oltre 800 le vittime e più di quattromila le persone arrestate.
Si è così interrotto bruscamente un processo di transizione democratica che aveva visto coabitare, ai vertici, alcuni leader eletti e amati dal popolo e un regime militare odiatissimo (ancor più oggi) che controlla buona parte dell’economia stessa del Paese. Collocato in una posizione strategica tra India e Cina, il Myanmar è un Paese molto ricco di risorse naturali (petrolio, minerali, legname pregiato, pietre preziose…). Sebbene gran parte del popolo viva oggi in situazione di povertà, il Myanmar avrebbe le potenzialità per diventare un importante attore economico nella sua area. Ma, appunto, gli autori del colpo di Stato hanno voluto proteggere i loro interessi finanziari.
Dopo il golpe, la popolazione ha prontamente reagito con una serie di manifestazioni non violente in molte città. Al CDM (Movimento di disobbedienza civile) – che qualcuno ha già proposto per il Nobel per la pace 2022 – hanno aderito impiegati statali, operai, studenti, e molti giovanissimi. A differenza di altre volte, stavolta si stanno mobilitando cittadini di tutte le 136 componenti etniche, così come i fedeli appartenenti a tradizioni religiose diverse: dai buddhisti ai cristiani di varie denominazioni. Sul fronte opposto, i militari stanno procedendo a una brutale repressione. Gli oppositori vengono prelevati dalle loro case, mentre migliaia di prigionieri comuni sono stati rilasciati per far posto nelle carceri ai pacifici dimostranti. I criminali comuni, una volta scarcerati, vengono pagati per provocare violenze e disordine.
All’indomani del golpe si è formato il CRPH, un organismo composto da parlamentari eletti e dimessi dal regime, che rivendica di essere il rappresentante del governo civile. Il CRPH sta lavorando alla stesura della bozza di una nuova Costituzione in sostituzione di quella del 2008, che lasciava troppi poteri ai militari (un quarto dei seggi in Parlamento e alcuni ministeri-chiave).
La Chiesa cattolica partecipa attivamente e in molti modi alla protesta in corso. In varie occasioni sono scesi in strada, sempre in modo pacifico, seminaristi, preti, suore e molti fedeli laici. Le immagini di religiosi e religiose in piazza con il rosario e cartelli in mano hanno ricordato a molti la convinta partecipazione della Chiesa cattolica alle proteste popolari nelle Filippine (1986), in Corea del Sud (1987) e a Hong Kong (1989, 2003, 2014 e 2019-2020).
Da parte sua, infine, la diplomazia internazionale si sta muovendo, fino a oggi, in maniera disordinata e lenta: mentre i Paesi occidentali hanno, in gran parte, condannato i militari, Pechino e Mosca usano toni molto più sfumati, a causa dei forti legami, economici e politici, con la giunta militare.