Sono 31.351 le imprese che hanno chiuso i battenti nel primo trimestre del 2013. Costruzioni, commercio e agricoltura i settori maggiormente in crisi. Per Unioncamere, che ha lanciato l’allarme in questi giorni, si tratta del saldo peggiore dal 2004. In particolare si è registrata una forte diminuzione delle iscrizioni rispetto allo stesso periodo del 2012 (-1.660) e un aumento delle cessazioni (+3.328). Il tasso negativo di crescita del trimestre (-0,51%) è il peggiore dell’ultimo decennio. Un dato reso ancor più drammatico dai numeri diffusi dall’Istat: il 2012 è stato un anno record per la disoccupazione in Italia con il massimo tasso tra i giovani e un raddoppiamento negli ultimi 35 anni considerando l’area del Mezzogiorno. I ragazzi senza lavoro in cerca di occupazione tra 15 e 24 anni erano il 35,3% nel 2012, il livello più alto dal 1977. Per tracciare un quadro della situazione l’agenza Sir ha parlato con Giancarlo Abete, presidente dell’Ucid (Unione cristiana imprenditori dirigenti).
Secondo i dati del ministero del Lavoro, nel 2012 i licenziamenti hanno superato quota un milione, con un aumento del 13,9% rispetto all’anno precedente. Un dato allarmante per il perdurare della crisi economica?
La disoccupazione e la difficoltà di molte imprese sono la nostra preoccupazione primaria. Bisogna cercare di mantenere una coesione sociale che consenta all’intero Paese di fare uno scatto di reni e di riprendersi da anni in cui si è registrata una recessione tanto grave. La centralità è per il mondo del lavoro e per i lavoratori. Soprattutto in momenti in cui lo Stato tende ad alleggerirsi in termini di strutture burocratiche, la risposta alle esigenze dell’occupazione non può che venire dal sistema delle imprese che garantisce anche la tenuta del Paese nella competitività internazionale. Sebbene ci sia stata una caduta significativa dei consumi, infatti, le imprese sono ancora attive sul versante dell’export ma questo non può essere il solo motore dell’economia. È indispensabile rifinanziare la cassa integrazione in deroga, perché il 2013 è un anno di grande difficoltà. Al centro deve essere sempre posta la persona. Mi piace richiamare, in questo senso, le parole di Giovanni Paolo II: «Sia l’economia al servizio dell’uomo e non l’uomo per l’economia».
Le imprese italiane soffrono ormai da anni per mancanza di credito. Ma non sono soltanto le banche ad aver chiuso i rubinetti. Lo Stato, infatti, vanta crediti per circa 90 miliardi di euro…
Spesso, come cittadini, ci rammarichiamo dell’insufficienza del senso di appartenenza allo Stato. Però la qualità dei rapporti con i soggetti istituzionali è data dalla reciprocità. Anche in momenti di grande difficoltà, tenendo al primo posto la lotta agli evasori, le entrate fiscali testimoniano che lo zoccolo duro delle imprese e dei cittadini mantiene gli impegni nei confronti dello Stato. Da questo punto di vista, mentre è amaro ma comprensibile che alcune imprese chiudano per via della competizione sul libero mercato, non è accettabile che ci siano aziende che non sono in grado di pagare dipendenti e fare investimenti perché lo Stato non rispetta gli impegni assunti. Se non si attiva un volano di risorse, non si genera la potenzialità di sviluppo delle imprese che è fondamentale per il Paese.
La pressione fiscale, per aziende e privati, è ormai arrivata a una soglia allarmante…
I livelli determinano ormai una difficoltà a onorare gli impegni e a incentivare lo sviluppo per imprese e cittadini. Le risorse che vengono drenate dal sistema fiscale non sono poi disponibili per essere investite nelle imprese. Penso all’Irap, un’imposta che corre il rischio di essere maggiormente penalizzante per coloro che generano lavoro con un’evidente contraddizione interna. D’altra parte, è opportuno rivisitare anche l’imposta sulla prima casa perché tante persone hanno investito tutti i risparmi nella logica di patrimonializzare ed è necessario che questi soggetti abbiano un riconoscimento sul loro risparmio. Il contenimento dello spread è poi un elemento determinante, dal momento che molte risorse che lo Stato dovrebbe destinare alla tenuta del mondo del lavoro vengono spostate sugli interessi da pagare.
Sono auspicabili delle modifiche alla Legge Fornero?
L’obiettivo della riforma partiva da presupposti largamente condivisibili: determinare una maggiore chiarezza sul versante della tipologia dei rapporti contrattuali. Quanto ciò sia compatibile con una situazione di grave difficoltà del sistema Paese è rimasto un punto di domanda. La preoccupazione è che la legge non abbia dato una risposta adeguata sul versante della flessibilità in entrata. La crisi determina la necessità che non si tagli con l’accetta, che non si faccia diventare certezza il “precariato” perché in questo modo si può determinare l’effetto opposto. Non dobbiamo andare verso il non-lavoro ma verso la promozione dell’occupazione. Per questo è necessario rafforzare l’apprendistato, che resta elemento portante di tutte le politiche del lavoro. La stabilizzazione del lavoro è decisiva per la formazione di famiglie e l’assunzione di impegni per il futuro da parte dei giovani.
Cosa si aspetta dal nuovo governo che si va formando in queste ore?
La stabilità politica è una necessità, non una scelta. E questa penso sia la questione di fondo che ha determinato la generosità del presidente Napolitano. Ciò non significa ingessare le dialettiche politiche o perdere la propria dimensione. Significa piuttosto dare una scala di priorità rispetto a quel che serve per il sistema-Paese. La stabilità politica, anche all’interno di un impegno che può vedere insieme forze politiche con sensibilità diverse, deve avere priorità. Anche perché le specificità dei singoli schieramenti non sono attualmente in grado di dare prospettiva all’Italia. Ci sono dei momenti nella vita delle famiglie, delle imprese e dei Paesi in cui, al di là delle diversità, bisogna avere la capacità di mettersi in gioco rinunciando a una parte delle proprie peculiarità per fare un interesse generale in nome del bene comune.