Si discute da alcuni giorni sull’aggiunta del riferimento al “merito” al nome del Ministero dell’Istruzione.
Equazioni semplicistiche
Molti si sono scagliati contro una logica che vorrebbe innanzitutto premiare i migliori ed esaltare le eccellenze. Ma la scuola non è fatta per sfornare geni, quanto per educare i cittadini di domani, tanto più se provengono da contesti di disagio o manifestano personali difficoltà che non sono da attribuire esclusivamente al disimpegno. L’equivalenza tra insuccesso e mancanza di volontà è decisamente semplicistica, perché non tutti partono dallo stesso punto, né dispongono delle stesse opportunità. Anche la famosa motivazione, che in alcuni accende la curiosità di apprendere e in altri sembra così assente da rendere vano qualsiasi stimolo, non scaturisce dal niente, ma è condizionata da elementi di contesto che determinano differenti background come pure, fin dall’inizio, differenti aspirazioni e possibilità di riuscita. Quel che ciascuno ci mette di suo si innesta su un’ampia serie di elementi esterni che talvolta sono così penalizzanti da rendere davvero improbabile un esito positivo del percorso scolastico.
Proprio per questo negli ultimi anni la scuola si è sforzata di essere sempre più inclusiva, sviluppando forme di attenzione doverose verso tutti coloro che, in un modo o nell’altro, partono svantaggiati. La comparsa della parola “merito” sembra andare in direzione opposta e si capisce che abbia suscitato una dura reazione.
Un servizio meno qualificato?
D’altra parte il governo sostiene che nel recente passato, in nome dell’inclusività, la scuola abbia progressivamente abbassato le proprie richieste e offerto un servizio sempre meno qualificato, che alla lunga penalizza gli studenti più dotati. Parlare di merito sarebbe allora il modo di ribadire la necessità di una scuola seria, capace di trasmettere contenuti complessi e di formare i propri alunni senza accontentarsi di livelli minimi.
È difficile disapprovare questi obiettivi, che però non sono in alternativa al dovere di accorciare la distanza che separa chi nasce in un ambiente culturalmente povero da chi invece è più fortunato. Certamente lo scopo della scuola dovrebbe essere quello di portare tutti a esprimere il meglio di sé e non a conseguire uno standard a malapena accettabile; ciononostante (o proprio per questo) lo strumento non può essere quello di lasciare indietro chi non ce la fa, assecondando quella «cultura dello scarto» contro cui tante volte è intervenuto papa Francesco.
Non conta solo il successo
Soprattutto, è fuorviante affrontare la questione esclusivamente in riferimento al successo o all’insuccesso del singolo. La scuola introduce i giovani alla convivenza civile e plasma la società di domani: non è solo affare di prestazioni personali. Quand’anche al riparo da una logica competitiva che punti innanzitutto su chi è in grado di guadagnare il miglior piazzamento, la prospettiva generale del sistema educativo non dovrebbe focalizzarsi solo sulla riuscita individuale, ma sulla crescita della persona, che ha sempre un tessuto relazionale e si esprime in una dimensione comunitaria. Proprio su questo fronte, il ruolo della scuola nel correggere la scala delle priorità dovrebbe essere strategico e rappresentare un’opportunità che non ci si può permettere di sprecare.