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Sirio 15 - 21 luglio 2024
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Medio Oriente

Israele-Palestina, un baratro di odio sempre più profondo 

Il nuovo ciclo di violenze rischia di seppellire ogni speranza di attuare gli accordi internazionali. Da questo puzzle regionale (e mondiale) complicatissimo si può uscire solo aprendo nuovi percorsi di comprensione reciproca. Pubblichiamo «L’Opinione» de «Il Segno» di novembre

di Giuseppe CAFFULLI *

31 Ottobre 2023
Ricoverati in un ospedale di Gaza (foto The New York Times / Contrasto)

Da Il Segno di novembre

Quello che accade in Terra Santa dal 7 ottobre scorso, con l’attacco di Hamas a Israele e lo scoppio di una vera e propria guerra, sta assumendo man mano che passa il tempo contorni sempre più tragici. Basta citare, tra le tante barbarie, quanto accaduto il 17 ottobre: la strage causata da un’esplosione presso l’ospedale della Chiesa anglicana-episcopaliana di Gaza, con oltre 500 vittime, proprio nel giorno in cui i cristiani di molte parti del mondo si sono uniti in una giornata di digiuno e preghiera per la pace.

Difficile dire, mentre stiamo scrivendo, cosa capiterà nelle prossime settimane in Israele e nella Striscia di Gaza. Si fermerà l’escalation? Si ritroverà un minimo di ragionevolezza da una parte e dell’altra? Si metterà un argine al fiume di sangue (di vittime civili) che sta scorrendo? Oppure assisteremo a un ulteriore aggravamento della situazione sul campo?

Da una parte, infatti, c’è la violenza cieca di un’organizzazione terroristica, Hamas, che ha come unico scopo quello di distruggere Israele e di sostituirlo con uno Strato a matrice islamica. Dall’altro lato, c’è la risposta d’Israele, quanto mai dura, che sta mettendo a ferro e fuoco la Striscia. Oltretutto, le piazze di molti Paesi arabi o a maggioranza musulmana sono particolarmente inquiete, e crescono le proteste contro Israele e l’occupazione militare della Palestina. A soffiare sul fuoco, l’universo jihadista islamico, che sta chiamando alla reazione i musulmani di tutto il mondo.

In mezzo, vittima sacrificale, l’accantonamento (forse definitivo) di ogni possibile colloquio tra Israele e Palestina, per arrivare alla costituzione di un’entità statuale palestinese autonoma sul territorio deciso dagli accordi internazionali. Alla luce di quanto è successo, e con il carico di sofferenza e rancore che ogni conflitto rinfocola da entrambe le parti, sembra sempre più improbabile che si possano riaprire spiragli di pace nel breve periodo.

Per questa ragione i capi delle Chiese non smettono di lanciare appelli affinché cessi ogni tipo di violenza. «La nostra amata Terra Santa – si legge in un comunicato diffuso il 13 ottobre – è cambiata radicalmente durante la scorsa settimana. Stiamo assistendo a un nuovo ciclo di violenza con un attacco ingiustificabile contro tutti i civili. Le tensioni continuano a crescere e sempre più persone innocenti e vulnerabili stanno pagando il prezzo più alto, come dimostra chiaramente il drammatico livello di morte e distruzione a Gaza».

Se il fronte interno è caldissimo e anche la Cisgiordania vive momenti di grande tensione (con frequenti scontri tra coloni degli insediamenti e fazioni locali palestinesi), ugualmente grave è il quadro regionale. Le Monde, il principale quotidiano francese non ha esitato, all’indomani del 7 ottobre, a indicare le colpe dei «seppellitori di Oslo» (gli accordi siglati giusto 30 anni fa, che avrebbero dovuto portare a uno Stato palestinese e a una pace giusta). «L’offensiva lanciata contro lo Stato ebraico ha dissipato l’illusione di calma. Tra gli abusi della colonizzazione in Cisgiordania, l’incapacità dell’Autorità palestinese e la deriva dell’estrema destra nella società israeliana, la prospettiva di un esito pacifico e politico sembra sempre più lontana. I seppellitori di Oslo, la destra israeliana e Hamas, sono agli avamposti in questa guerra. (…) Non hanno nient’altro da offrire se non delle impasse: lo sradicamento di Hamas, promesso mille volte da Netanyahu, di cui i civili di Gaza pagheranno il prezzo; la “vittoria” secondo Hamas, che non è altro che un massacro senza un futuro».

La guerra in corso appare poi come una vera e propria batosta, da una parte, per l’Arabia Saudita (portabandiera del mondo musulmano sunnita) e, dall’altra, per il percorso degli Accordi di Abramo, concepiti da Donald Trump per normalizzare le relazioni tra i Paesi arabi e Israele. L’Arabia Saudita ha voluto mostrare fin dall’inizio che la normalizzazione dei rapporti si poteva ottenere solo in cambio di concessioni ai palestinesi: fine della colonizzazione e soluzione dei due Stati. Una prospettiva che oggi è pura illusione: «L’idea di relazioni tra sauditi e israeliani era molto impopolare tra gli arabi – scriveva qualche settimana fa L’Orient-Le Jour, il principale quotidiano libanese in lingua francese -, ma l’attacco scatenato da Hamas contro Israele, a 50 anni dalla guerra del Kippur, mette in luce tutti i limiti degli equilibrismi diplomatici dell’Arabia Saudita con Paesi tra loro nemici, cioè Israele e Iran. Il processo di avvicinamento sarà quantomeno ritardato dal clima che farà seguito alla risposta armata di Israele».

L’Iran degli ayatollah (portabandiera del mondo musulmano sciita) si è intromesso talmente nella politica interna araba che nessuna analisi può ignorarne il ruolo. Hamas (figliazione diretta dei Fratelli Musulmani di osservanza sunnita), tra i suoi sostenitori, ha in varia misura Paesi come la Turchia e il Qatar. Ma il principale sponsor dal quale riceve sostegno militare e politico, è la Repubblica islamica dell’Iran (che è presente anche in Siria e Libano, tramite la longa manus armata del movimento sciita Hezbollah).

La prospettiva di cui si è fatto alfiere Hamas appare dunque quella iraniana: far deragliare il processo di avvicinamento tra israeliani e sauditi, indebolendo l’immagine di Israele a livello internazionale. Cinicamente, da questo punto di vista, le migliaia di vittime civili da parte palestinese, per Hamas e dunque per l’Iran, sono un vantaggio strategico, trofei in una guerra mediatica per condizionare i governi arabi nei loro passi d’avvicinamento verso lo Stato sionista.

Siamo di fronte, dunque, a un complicatissimo puzzle che vede attori interni e attori esterni. Un conflitto che vede schierate, su fronti opposti, le superpotenze: da un lato Usa e Occidente nel sostegno a Israele, dall’altro Iran, Russia e perfino Cina (pur con diverse sfumature) a fianco della causa antiimperialista (cioè antiamericana).

Una palude dalla quale si può uscire solo aprendo nuove prospettive di dialogo e di pace, nuovi percorsi di comprensione reciproca, nuove strategie d’incontro. Diversamente sarà un sempre più profondo baratro d’odio.

 * Direttore di Terra Santa, collabora con quotidiani e periodici, ha realizzato reportage in diversi continenti. Nel 2005 ha vinto il concorso letterario “Volontari per i diritti” e nel 2007 ha ricevuto il “Premio giornalistico Giuliano Ragno”

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