Dove eravamo rimasti? A un quarto di secolo fa. Alle campagne (ecclesiali e della società civile) innescate a livello planetario dal Giubileo del 2000, e alle concrete iniziative e ai positivi risultati che esse avevano prodotto, premendo su governi e istituzioni finanziarie internazionali. Di remissione o riconversione o ristrutturazione del debito estero dei Paesi poveri, però, ormai da un paio di decenni non sentivamo più parlare (a meno di non essere accademici del settore o addetti ai lavori): eppure esso è tornato a gravare pesantemente sulle sorti di una parte consistente dell’umanità.
Nel suo rapporto Un mondo di debito l’Unctad (la Conferenza permanente delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo) ha in effetti documentato l’anno scorso che almeno 3,3 miliardi di persone in Africa, America Latina e Asia nel 2023 vivevano in Paesi costretti a spendere di più per ripagare gli interessi sui debiti che per finanziare sanità o istruzione. E molti altri dati (a cominciare dal fatto che i tassi applicati ai prestiti concessi ai paesi del cosiddetto “Sud globale” sono molto più elevati di quelli applicati ai prestiti concessi ai Paesi ricchi e sviluppati) potrebbero dimostrare che il debito pubblico, e in particolare il debito estero, è tornato a rappresentare una zavorra che rischia di affossare le speranze di sviluppo e benessere di interi popoli e – appunto – di miliardi di individui.
Il “ritorno del debito pubblico”, che a fine 2023 aveva raggiunto a livello globale la cifra record di 97 mila miliardi di dollari, dopo una fase di attenuazione del problema nella prima decade del millennio, è dovuto alla combinazione di diversi fattori. Anzitutto gli effetti delle grandi crisi finanziarie globali del 2008 e 2012 e di quella pandemica del 2022, che hanno costretto molti Stati a ricorrere nuovamente a prestiti massicci, gravati da interessi elevati e condizionalità sociali, oltre che finanziarie, sovente insostenibili. La fiammata inflazionistica dovuta, tra le altre cose, alla guerra tra Russia e Ucraina e la svalutazione di molte monete rispetto al dollaro, valuta con cui solitamente si contraggono i debiti dall’estero, hanno recentemente inasprito il quadro. Reso ancora più problematico dal fatto che, rispetto al passato, è cresciuta la quota dei debiti contrati con creditori privati, meno disponibili ad aderire a iniziative di ristrutturazione o remissione dei debiti rispetto agli organismi finanziari pubblici internazionali e multilaterali.
Come reagire all’impatto (persino ambientale, dal momento che i Paesi schiavi del debito non hanno risorse per lenire e tantomeno prevenire gli effetti, sovente drammatici, del mutamento climatico) di tale scenario? L’appello a “condonare i debiti” lanciato da papa Francesco nella Spes non confundit, la bolla di indizione del Giubileo del 2025, e ribadito dal Pontefice in altre recenti occasioni, animerà il Convegno Mondialità organizzato come da tradizione, a metà febbraio, dagli Uffici per la Pastorale missionaria e la Pastorale dei migranti dell’Arcidiocesi di Milano e da Caritas Ambrosiana.
«Giubileo e remissione del debito. A che punto siamo?» è il titolo dell’appuntamento programmato per la mattina di sabato 15 febbraio (vedi qui la locandina) al Centro Pime di Milano: dopo il saluto dell’arcivescovo Mario Delpini, interverranno gli economisti Riccardo Moro (già coordinatore della campagna Cei in occasione del Giubileo del 2000) e Gabriele Verga (Dicastero pontificio per lo sviluppo umano integrale). Sui flussi migratori provenienti da Paesi gravati dal debito estero offrirà una testimonianza Alganesh Fessaha (italo-eritrea, presidente dell’ong Gandhi Charity), mentre Massimo Pallottino (Caritas Italiana) presenterà la campagna “Cambiare la rotta. Trasformare il debito in speranza”, recentemente lanciata da diversi soggetti ecclesiali italiani.