Dopo Bruxelles, un altro aeroporto finisce sotto attacco. Ieri è toccato allo scalo “Ataturk” di Istanbul, la più grande metropoli della Turchia. Il bilancio della strage è di almeno 36 morti e oltre 140 feriti. Il commando degli attentatori – fonti della polizia turca parlano di sette persone – ha fatto irruzione nel terminal internazionale dell’aeroporto sparando sulla folla, dopo di che tre kamikaze si sono fatti esplodere. Un modus operandi che ricorda quello, ben organizzato e coordinato, del 22 marzo scorso all’aeroporto di Zaventem a Bruxelles, rivendicato dall’Isis. Al momento non è arrivata nessuna rivendicazione, ma, come dichiarato dal premier Binali Yıldırım, tutti i sospetti cadono anche in questo caso sullo Stato islamico.
Quello di ieri è solo l’ultimo di una scia di attentati che sta colpendo il Paese guidato dal Sultano, Recep Tayyip Erdogan. In questi primi sei mesi del 2016 Istanbul ne ha già subiti tre. A colpire anche i militanti curdi, che da decenni combattono per ottenere l’autonomia, oltre ai jihadisti dell’Isis che, vale la pena ricordarlo, hanno una presenza radicata nel Paese della Mezzaluna, per loro principale punto di passaggio verso il fronte siriano e iracheno. E non vanno dimenticate, tra le altre, le stragi di Ankara con 34 morti e 125 feriti del 13 marzo scorso e per la quale si segue la pista dei curdi del Pkk, e del 17 febbraio contro un mezzo militare, 28 morti e 60 feriti.
La strage all’aeroporto “Ataturk”, nonostante tutti questi tragici precedenti, coglie la Turchia di sorpresa proprio mentre è impegnata a mutare il suo corso politico, finora ricco di ambiguità. La sua strategia politica nella regione, infatti, aveva visto dal 2011 Erdogan intessere negoziati con i curdi del Pkk e poi interromperli quando questi si sono rivelati i principali nemici dello Stato islamico e dei suoi tagliagole, sui quali il presidente turco contava per abbattere il regime siriano di Assad.
Una contraddizione evidente per il leader di un Paese, membro della Nato, ma capace nel contempo di fare affari con l’Isis (petrolio, foreign fighters…), stringere accordi con l’Ue per accogliere – dietro miliardario compenso – profughi e rifugiati, minacciare quei Paesi occidentali che riconoscevano il genocidio armeno, siglare patti con Hamas e negoziare intese in funzione anti-iraniana con Israele dopo le tensioni causate dall’arrembaggio israeliano alla nave turca “Mavi Marmara”. Per non dire delle scuse del Sultano a Putin per l’abbattimento del jet russo al confine siriano.
Accordi e riavvicinamenti che segnano un cambio di passo della Turchia dovuto alle pressioni di Usa e Russia. I raid aerei delle due super-potenze hanno cancellato pozzi, azzerando la capacità finanziaria dell’Isis e permesso all’esercito turco di controllare i valichi di frontiera. A sua volta Ankara bombarda postazioni Isis a nord-ovest di Aleppo e, sul fronte interno, ha già lanciato diverse operazioni antiterroristiche.
Abbandonare lo Stato islamico e i suoi tagliagole, riavvicinarsi a Russia e a Israele e, sul piano interno, cercare di riguadagnare la fiducia delle proprie Forze armate, equivalgono a una precisa scelta di campo del Sultano, oggi più che mai ostile al Califfo. Che non ha mancato di rispondere con l’ennesima strage. A chi vuole isolare e colpire la Turchia si risponde anche con una politica chiara e trasparente di cooperazione e collaborazione. Il tempo delle ambiguità è finito.