È coraggioso il Discorso alla Città dell’Arcivescovo, che denuncia «l’epidemia della paura», stigmatizza i «seminatori di paura» e non esita a collegare la macchina della paura alla ricezione dei migranti. Nell’ennesimo anno elettorale si può essere certi che l’arma retorica della paura per catturare voti sarà adottata con dovizia.
Una ricerca Ipsos di qualche anno fa aveva rilevato che gli italiani ritenevano che il 26% dei residenti nel nostro Paese fossero immigrati, contro un dato reale del 9% circa. Questo scarto tra percezione e realtà si riscontra in tutta Europa, ma è l’Italia a presentare il divario più profondo tra il dato percepito e quello oggettivo. Molta parte dell’opinione pubblica scarica sugli ultimi arrivati le ansie e paure di cui parla monsignor Delpini nel suo Discorso. Ci sentiamo più fragili e minacciati per varie ragioni, dalla globalizzazione economica alla secolarizzazione culturale, e individuiamo i colpevoli negli stranieri (poveri) venuti a popolare le nostre città e a svolgere tante occupazioni per cui mancano le braccia. Anche all’interno delle nostre case e nelle nostre famiglie.
Basti pensare a una serie di informazioni distorte che inquinano il dibattito pubblico: che l’immigrazione sia in tumultuoso aumento, quando invece è stazionaria da più di dieci anni; che gli sbarchi e gli arrivi per asilo ne siano la componente principale, quando invece si tratta di 340 mila persone a fine 2022 (ucraini compresi), oggi forse 400 mila, su oltre 5 milioni di residenti stranieri; che consista di giovani maschi provenienti dall’Africa o dal Medio Oriente, di religione musulmana, quando invece la maggioranza degli immigrati in Italia (e in Europa) sono donne, per quasi la metà europei, per due terzi provenienti da Paesi di tradizione culturale cristiana; che rappresentino un peso per il nostro affaticato sistema di welfare, quando invece 2,4 milioni lavorano regolarmente, e a motivo dell’età mediamente giovane pesano poco su pensioni e ricoveri ospedalieri (5% soltanto i pensionati).
Se uno spiraglio s’intravede nella filtra coltre di nebbia della paura indotta, questo proviene dal mercato del lavoro: proprio in questi giorni, con il click day, oltre 600 mila richieste (italiane) di nuovi ingressi, contro poco più di 130 mila posti disponibili. Fatichiamo però a metterci d’accordo con noi stessi: vorremmo le braccia, ma non le persone, e neppure le famiglie. Le vorremmo in orario di lavoro e nei luoghi della produzione, non nelle città, la sera e nel tempo libero. Le vorremmo docili e obbedienti, non cittadine.
Fa bene monsignor Delpini a chiamare all’azione i seminatori di fiducia. Qui un dato può incoraggiare: secondo varie indagini, ha meno paura degli immigrati chi ne ha una conoscenza diretta, di persona. Ha più paura chi ne ha una conoscenza indiretta, mediata soprattutto dalla Tv. Se dunque riusciremo a moltiplicare i luoghi d’incontro e le occasioni di scambio, a costruire relazioni di buon vicinato, potremo accrescere la fiducia e far arretrare la paura. Se nelle parrocchie si attivassero delle famiglie-tutor, pronte ad accogliere e ad accompagnare i nuovi arrivati, italiani o immigrati che siano, potremmo dar vita a un tessuto sociale più aperto alle relazioni, più ispirato a cordialità e simpatia, più ricco di quella fiducia che apre la mente e il cuore al futuro.