«La ricchezza delle interpretazioni non è per forza segno di relativismo radicale, equivalenza e indifferenza. La verità poi non può mai essere tutta esplicita. C’è sempre una parte di mistero, una parte che ci sfugge, che chiede ascolto, silenzio per essere compresa. Umiltà. L’era della post-verità è quella, arrogante, che ha bandito il mistero e il silenzio. Daremo un contributo non se urleremo più forte degli altri, ma se sapremo custodire questo spazio di eccedenza e di libertà». Lo sostiene Chiara Giaccardi, docente di sociologia e antropologia dei media all’Università cattolica di Milano.
Il tema della post-verità sarà al centro dell’incontro del cardinale Scola con i giornalisti in occasione della festa di San Francesco di Sales, che si terrà sabato 28 gennaio a Milano. Post-verità, parola dell’anno 2016 secondo l’Oxford English Dictionary, indica che «i fatti oggettivi sono meno influenti nel formare la pubblica opinione degli appelli a emozioni e delle credenze personali».
Sulla post-verità si è sviluppato un vivace dibattito tra sostenitori del web e i media. Come leggere questa diatriba?
Da una parte, i media tradizionali accusano i social media di inquinare l’informazione con la diffusione virale di bufale, fake news (notizie false, diffuse e/o costruite ad hoc per raggiungere certi obiettivi) e hate speech (discorso violento che istiga all’odio). Dall’altra i social polemizzano contro un’informazione faziosa, che tutela gli interessi di pochi, non sopporta di aver perso il monopolio della verità e vorrebbe mettere il bavaglio a chi parla con libertà. Post-verità sarebbe dunque l’etichetta con cui l’establishment cerca di neutralizzare ciò che lo mette in discussione. E al fondo c’è la polemica contro ogni idea di “verità”, intesa come la visione dominante, legittimata dal potere, che si impone con violenza, e che di fatto è propaganda.
Dunque, cade la centralità di un’informazione professionale in crisi di credibilità?
Che ci sia un problema con l’informazione è vero. E non da oggi. Scivolata sempre più verso l’intrattenimento, monopolizzata da pochi soggetti influenti, condizionata dalla politica e dall’economia, disposta a normalizzare ciò che guardato con un minimo di lucidità è quantomeno grottesco, versa in una profonda crisi di legittimità. E ben venga il fatto che alcuni eventi mettano in evidenza tale crisi. È una buona occasione per farsi delle domande e ripensare la funzione dei media oggi. Oggi molti di essi sembrano essersi trasformati da “cani da guardia” della democrazia piuttosto in “cani da salotto e da compagnia”, fedeli a chi offre l’osso più grosso. Ciò però non porta alla conclusione che i social in quanto tali siano il luogo della libertà e dell’indipendenza dal potere, della parresìa contro l’ipocrisia dei media tradizionali.
Allora quale strada devono imboccare i media per recuperare credibilità?
La crisi di legittimità dell’informazione non è un effetto della proliferazione di fake news prodotte e diffuse dal web. Nessun medium è immune dalla modalità di comunicazione dove le opinioni contano più dei fatti. Più concretezza sarebbe già un antidoto all’autoreferenzialità. L’unico rimedio alle fake news non è in ogni caso, come si tende a sostenere, il fact-checking, le prove a sostegno. Perché non c’è solo un problema di aderenza ai fatti: i fatti richiamati possono essere veri, ma non i più rilevanti e non è un “positivismo 3.0” la soluzione che ci serve. La selezione è inevitabile: cosa e come selezionare è questione di giudizio e quindi di giustizia e di etica, non di una presunta neutra aderenza alla realtà. Perché, allora, le due posizioni in campo mancano il punto? Perché si tengono l’un l’altra nel fare della verità un feticcio da possedere o da distruggere. Invece la verità è inesauribile e inoggettivabile. Dunque non si coglie che all’interno di una prospettiva sempre parziale. Che è insieme vera – dal momento che è una finestra sulla vita e sul mondo – e non vera, se pretende di esaurire quella verità con una parola definitiva e ultima.
È tuttavia necessaria una riflessione critica anche sulla deriva dei social nel dibattito pubblico…
Certo. Anche sul web, insieme a voci e notizie che aiutano a capire, che informano su ciò che non trova spazio altrove (anche per vere forme di censura, opportunamente denunciate), che innescano processi virtuosi di consapevolezza e mobilitazione circolano istigazioni all’odio, notizie non verificate o addirittura costruite appositamente per interferire con i processi democratici, forme di populismo che alimentano odio e razzismo. Con il paradosso che il linguaggio “politicamente scorretto” (in realtà aggressivo e spesso anche volgare) diventa una marca di “autenticità” e onestà comunicativa. L’essere informati viene confuso con la rancorosa esibizione di appartenenza. Dimmi con chi ti schieri, e ti dirò chi sei. E se ti schieri insultando, allora significa che sei davvero convinto. È il tranello della “doppia negazione”: non nascondere la propria “scorrettezza politica” mentre ci si scaglia contro l’establishment di turno non vuol dire essere in buona fede. La negazione di una bugia non è per forza una verità.