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Sirio 01 - 10 novembre 2024
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Intervista

Ferrero: «Occorre diffondere una cultura del rispetto dell’altro e delle regole»

Il presidente dell’Unione Giuristi Cattolici di Milano riflette sugli ultimi pronunciamenti dell’Arcivescovo in tema di legalità: «L’attività dell’operatore della giustizia deve tendere alla tutela della dignità umana»

di Annamaria BRACCINI

30 Giugno 2019
Mattia Ferrero

Non vi è dubbio che la legalità, il dialogo e l’alleanza virtuosa tra le istituzioni, il dare speranza a un mondo che, in tante sue realtà, sembra averla persa, sia questione che sta a cuore alla Chiesa universale. Quella che, con il Papa, non si stanca di visitare le periferie concrete e spirituali, e quella locale, come la nostra ambrosiana che, con l’Arcivescovo, ha promosso in questi ultimi mesi un articolato calendario di incontri e iniziative proprio per promuovere un dialogo non solo tra i credenti, ma rivolto a tutti coloro che hanno a cuore la possibilità di rendere migliore, anche solo di poco, la convivenza civile. Cruciale, in questo contesto, il tema della giustizia, come spiega Mattia Ferrero, presidente dell’Unione Giuristi Cattolici di Milano.

Più volte in questi mesi, nei suoi pronunciamenti pubblici in sedi civili di alto prestigio e significative come il Palazzo di Giustizia di Milano o l’Istituto Minorile di pena “Cesare Beccaria”, l’Arcivescovo ha richiamato il valore cruciale di un’alleanza in vista del bene comune. Secondo lei, qual è l’aspetto o l’ambito a cui mettere mano più urgentemente?
Nell’ambito dell’amministrazione della giustizia tale alleanza deve essere in primis tra magistrati e avvocati, nella consapevolezza di svolgere tutti – ciascuno nel proprio ruolo – il medesimo lavoro: quello di contribuire a dare a ognuno la risposta di giustizia che ricerca. In questa alleanza devono essere coinvolte non solo le altre persone, che a vario titolo contribuiscono al servizio della giustizia, ma pure le istituzioni che hanno competenza in materia. Ciò vale con riferimento sia agli aspetti più propriamente giuridici, sia a quelli organizzativi, che in molti casi sono decisivi per dare una buona e sollecita risposta al bisogno di giustizia.

Nel discorso «Autorizzati a pensare» si sottolinea con chiarezza la necessità di non affrontare le difficoltà attuali del Paese con un atteggiamento emotivo e generalizzazioni che generano solo paure e sfiducia. Questo vale anche per l’esercizio della giustizia?
Il settore giustizia è sicuramente esposto a reazioni emotive e generalizzazioni, le quali – è bene evidenziarlo – provengono più dall’opinione pubblica che dagli operatori. Il rischio è che i processi si svolgano sui media, anziché nelle aule giudiziarie, sulla base di argomenti portati da chi a volte non conosce la legge e quasi sempre non ha una conoscenza precisa e circostanziata dei fatti. Anche il legislatore è soggetto a tali dinamiche, assumendo provvedimenti sulla scia delle reazioni emotive legate a singoli casi, anziché a seguito di un’adeguata analisi e ponderazione dei veri bisogni.

Parlando al Convegno della Consulta nazionale antiusura, l’Arcivescovo ha definito il senso di una «bonifica antropologica» come scelta di libertà, contro ogni schiavitù «che si chiama anche idolatria». Di fronte a idoli, come l’acquisizione esagerata di beni si tratta, invece, di stabilire rapporti personali che diventino aiuto nell’accompagnamento. Come giuristi cattolici sentite la responsabilità di un approccio non solo professionale o tecnico per una giustizia autenticamente giusta?
L’Unione Giuristi Cattolici ha come primo fine statutario quello di contribuire all’attuazione dei principi cristiani nell’esperienza giuridica. Non è dunque pensabile che il giurista cattolico – ma ciò dovrebbe valere per ogni buon giurista – si limiti a un approccio del tutto positivistico, nel quale la legge e la tecnica sono principio e fine dell’intera attività. Tra i principi cristiani da attuare nell’esperienza giuridica, credo che tra i più importanti vi sia la tutela della dignità umana, che deve essere sempre tenuta presente dall’operatore della giustizia e a cui deve tendere la sua attività.

Diffondere, nella gente, la consapevolezza del rapporto che esiste tra diritti e doveri, la necessità di abbassare toni, livello di litigiosità e la tendenza al lamento, è un modo per parlare anche di legalità?
Sicuramente nella nostra società si fa un gran parlare di diritti, tanto che si parla di diritti insaziabili, ma ben poco di doveri. Anche nella concreta esperienza giuridica capita che si enfatizzi il torto subito e si minimizzi quello fatto, rendendo così difficile trovare una soluzione conciliativa. Si originano, così, contenziosi che non servono a rendere giustizia, ma solo ad appagare un desiderio di rivalsa. In questa prospettiva, gli operatori della giustizia sono chiamati al ruolo fondamentale di responsabilizzare le persone, sottolineando come i doveri siano l’altra faccia della medaglia dei diritti.

Ci sono luoghi simbolici o gesti che possono favorire vita buona, dare speranza, indicare una “terra promessa” sempre possibile, anzitutto ai giovani, ma anche all’intera società?
A mio avviso è necessario diffondere una cultura del rispetto dell’altro e delle regole, a cominciare da quelle minute. D’altronde il Vangelo ci insegna che «chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti». Credo che questo sia il primo ambito di intervento, specie nell’educazione delle giovani generazioni. Quanti ai luoghi simbolici, ve n’è molti, ma penso che ai giuristi ambrosiani sia molto caro il Palazzo di Giustizia. Tuttavia, il rischio è che esso venga visto e vissuto come il tempio dei “sacerdoti del diritto”, dove il cittadino “profano” del diritto è una specie di corpo estraneo, destinato a rimanere escluso dai riti officiati dai “sacerdoti”. Invece – parlo per primo a me stesso – l’attività del giurista non può essere fine a se stessa, ma deve costituire uno strumento perché la persona interessata trovi una risposta alla sua domanda di giustizia, di modo che la società acquisti fiducia e speranza nel sistema giustizia. Altrimenti si legittima la legge del più forte, capace di farsi giustizia da sé, a scapito dei più deboli.

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