«Quei mesi segnarono l’inizio della mobilitazione morale e civile di Palermo. Dicevo: “Diamoci la mano, facciamo valanga e vinceremo anche la mafia”». Padre Bartolomeo Sorge ricorda così – con sgomento, ma anche con la forza mite della speranza – i 25 anni delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, con le quali Cosa Nostra colpì al cuore dello Stato. Obiettivi i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che hanno rappresentato e rappresentano ancora oggi il volto della lotta alla mafia di un Paese che non si rassegna e che vuole liberarsi dal cancro mafioso. Stragi nelle quali sono morti tanti agenti di scorta e la moglie di Falcone Francesca Morvillo, anche lei magistrato. Padre Sorge, gesuita, oggi direttore emerito di Aggiornamenti sociali, in quegli anni (dal 1986 al 1996) era a Palermo a dirigere l’Istituto di formazione politica Pedro Arrupe.
Padre Sorge, sono passati 25 anni dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio. In quel periodo lei era a Palermo. Come ricorda quei terribili mesi?
Furono giorni di sgomento. Sembrava la fine. Non potrò mai dimenticare quello che provai per la morte del mio caposcorta, Agostino Catalano, papà di tre figli, saltato in aria con Borsellino. Nello stesso tempo, però, quei mesi terribili segnarono l’inizio della risurrezione di Palermo. Lo Stato, che per lunghi anni aveva contrastato la mafia con poca energia, sottovalutandola come una forma qualsiasi di criminalità, aprì finalmente gli occhi sulla natura devastante del fenomeno. E intervenne con decisione. Contemporaneamente quei mesi segnarono l’inizio della mobilitazione morale e civile di Palermo, che visse così una nuova “Primavera”.
Aveva avuto occasione di collaborare con Falcone e Borsellino?
Non direttamente. Avevamo ruoli diversi. Loro si muovevano sul piano della legge e della giustizia, noi su quello culturale e morale. Tuttavia, si può dire che la nostra fu una collaborazione più profonda ed efficace, nel senso che il loro prezioso servizio di magistrati e il nostro impegno educativo erano convergenti. A Palermo soffiò un vento gagliardo di legalità, che cominciò a spazzare le periferie e il centro della città. Questa aria nuova fece crescere nei cittadini una coscienza civica più matura, che la mafia non riuscì a scuotere, neppure con la dinamite.
Lei è stato protagonista nell’ispirazione della “Primavera di Palermo”. Come ricorda quella stagione e quali frutti ha portato?
Fu la prova concreta che, uniti, si raggiungono traguardi apparentemente irraggiungibili. La lezione di quella stagione l’ho voluta fissare nella similitudine della valanga, che poi ho continuato a raccontare migliaia di volte, in tutti gli angoli del Paese. Rispondendo a un giovane che affermava di essere troppo debole per potersi opporre alla mafia, spiegai che un fiocco di neve è fragile in sé, e da solo non può nulla; ma unito a tanti altri fiocchi di neve, fragili come lui, può diventare valanga, capace di modificare perfino il profilo roccioso della montagna. «Diamoci la mano, tutti gli onesti! – andavo gridando da una città all’altra -, facciamo valanga e vinceremo anche la mafia!». Questa fu la “Primavera di Palermo”.
La mafia, non solo Cosa Nostra, anche la ’ndrangheta, sono tornate silenziose e sottotraccia. Quanto è ancora pericoloso il fenomeno mafioso?
Il silenzio della mafia è ambiguo. Può voler dire che essa è in difficoltà, ma anche che può dedicarsi ai traffici illeciti senza essere particolarmente disturbata. Se i mafiosi fossero riconoscibili nel loro agire, non sarebbero più mafiosi. Essi si presentano spesso come persone perbene, perfettamente integrate nelle istituzioni pubbliche e nei gangli del potere. Per “legittimarsi” arrivano perfino a nascondersi dietro la religiosità popolare. La mafia è come il cancro. Non lo avverti, non lo vedi, ma continua a devastare l’organismo.
«La lotta alle mafie riguarda tutti», ha confermato di recente il presidente Mattarella. Ma quale antimafia è necessaria oggi, anche per onorare il sacrificio di magistrati come Falcone e Borsellino e delle tante altre vittime? Rispetto a 25 anni fa, la politica e le istituzioni sono all’altezza del contrasto alle infiltrazioni mafiose e della promozione della legalità?
Anche se lo fossero, non basta che le istituzioni siano all’altezza del loro compito. Se si vuole estirpare la mafia alla radice, oltre all’intervento delle forze dell’ordine, dei magistrati e delle istituzioni, è decisivo che la coscienza collettiva maturi e si traduca in comportamenti onesti e rispettosi della legalità. Su questo punto c’è ancora molto da fare. È positivo, però, che la gente – soprattutto i giovani – oggi non sia più rassegnata, non taccia più, non tolleri più le estorsioni, gli eccidi e la vergogna morale della mafia. Le stragi di Falcone e Borsellino, al di là della reazione emotiva, hanno prodotto una profonda indignazione civile, che in questi 25 anni è andata crescendo. E ciò fa ben sperare.