Sull’Europa è oggi urgente una “operazione verità”. Siamo infatti letteralmente invasi da fake news, forme di disinformazione, rappresentazioni distorte. Lo mostra eloquentemente una questione chiave: il rapporto tra indipendenza e sovranità. Quando si parla di Unione europea, indipendenza e sovranità vengono spesso confuse. Sono invece – primo punto da chiarire – due cose diverse.
Indipendenza e sovranità
Indipendenza è un termine politico per indicare uno Stato nazionale che non dipende da altri. Sovranità, invece, vuol dire potere effettivo di uno Stato nazionale di proteggere, controllare, aiutare i propri cittadini. Per molti secoli c’è stata piena coincidenza: l’indipendenza assicurava a uno Stato la piena sovranità. Oggi non è più così: gli Stati possono essere indipendenti senza essere sovrani, possono cioè decidere liberamente le proprie politiche senza riuscire però a incidere efficacemente sulla vita dei loro cittadini. È un effetto della globalizzazione che moltiplica i processi transnazionali – comunicativi, finanziari, economici, culturali ecc – su cui gli Stati nazionali possono fare ben poco.
Non è l’Europa a…
Non è certo l’Unione europea – secondo punto da chiarire – a creare tutto questo: non sono certo le istituzioni comunitarie a generare la diffusione della Rete, le catene di valore, la corsa al ribasso del costo del lavoro, l’aumento delle diseguaglianze, le tempeste monetarie, ecc. Stare in Europa non significa essere esposti alla globalizzazione. Al contrario, l’Ue ne contrasta e riduce gli effetti. Limitando l’indipendenza degli Stati europei in alcune aree (economia, finanza, moneta, fiscalità, ecc), garantisce però a questi ultimi una difesa della loro sovranità in queste aree. Ecco perché gli Stati europei hanno accettato limitazioni di indipedenza entrando a far parte dell’Unione europea.
Una libera scelta
Tali limitazioni – terzo essenziale punto da chiarire – non sono state imposte da nessuno. Sono state una libera scelta da parte degli europei: italiani, francesi, tedeschi e così via. Dal 1950, tutti i molteplici passi compiuti nella costruzione dell’Unione europea sono stati decisi dai Governi nazionali e sono stati approvati da Parlamenti nazionali. L’Unione europea gode dunque di una piena legittimazione democratica (anche se ovviamente è sempre possibile e anzi auspicabile aumentare le forme di controllo democratico sulle istituzioni europee, per esempio adottando l’elezione diretta del presidente dell’Unione). Non è il Sacro Romano Impero di Federico Barbarossa, che opprimeva i Comuni italiani desiderosi di libertà, o l’Impero austro-ungarico, che impediva l’indipendenza dell’Italia unita. È perciò senza fondamento parlare di “Europa” come un corpo estraneo che limita la sovranità nazionale, impone al popolo italiano decisioni prese dai burocrati di Bruxelles, si oppone alla redistribuzione dei rifugiati e degli immigrati giunti in Italia (sono i singoli Paesi europei a farlo – in primo luogo quelli con governi populisti – non l’Ue), ecc. L’Unione europea infatti è una costruzione sovranazionale a cui gli italiani hanno scelto liberamente di partecipare in condizioni di assoluta parità (ed è significativo che oggi tre cariche molto importanti, come quelle di presidente del Parlamento europeo, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e presidente della Banca centrale europea siano coperte da tre italiani).
Economia e moneta
La scelta di fondare l’Ue e di farne parte, accettando quindi limitazioni parziali della propria indipendenza, ha l’obiettivo di rafforzare le sovranità nazionali: se non lo avessero fatto – quarto punto da chiarire – i Paesi europei avrebbero semplicemente perso tali quote, come ha chiarito recentemente Mario Draghi. Lo scambio sovranità-indipendenza, infatti, ha anzitutto rafforzato le economie dei Paesi europei, compresa l’Italia. Senza il mercato comune europeo – e cioè la libera circolazione di persone, beni, e servizi iniziata con i Trattati di Roma del 1957 – il Pil dei Paesi europei sarebbe oggi del 9% circa più basso. Nel caso di uscita dal mercato comune, il Pil dell’Italia scenderebbe del 7% circa. Se uscisse dall’Ue, inoltre, riacquisterebbe la piena indipendenza nella scelta delle proprie politiche economiche, ma perderebbe in sovranità: dovrebbe infatti continuare ad avere rapporti commerciali con gli altri Paesi europei secondo le regole imposte dall’Ue senza però poter più influire sull’elaborazione di tali regole.
Considerazioni analoghe valgono anche per l’appartenenza all’area euro. Prima dell’adozione di una moneta unica, le politiche monetarie dei Paesi europei erano fortemente condizionate da quelle del Paese più forte, cioè la Germania. Entrando nell’euro, invece, l’Italia ha guadagnato il diritto di influire sulla politica monetaria europea alla pari degli altri Paesi. Insomma, ne ha guadagnato in sovranità, come gli altri Paesi europei.
La globalizzazione, inoltre, favorisce la formazione di catene di valore – e cioè di processi di produzione di beni – che non sono tutte interne a un unico Paese, ma condivise tra Paesi diversi. Ciò comporta che le modalità della produzione – e, di riflesso, la condizione dei lavoratori – seguano standard imposti dalle economie più forti. Analogamente le grandi multinazionali sono in grado di condizionare la fiscalità dei singoli paesi, diminuendo la loro possibilità di mantenere o sviluppare il welfare dei loro cittadini. È la “corsa al ribasso”: salari inferiori, minori garanzie per i lavoratori, maggiore precarietà nell’occupazione ecc. L’Unione europea, però, è in grado di contrastarla poiché rappresenta nel suo insieme un mercato di dimensioni tali che le multinazionali o le economie forti non possono prescinderne. Ciò facilita i singoli Stati europei nell’esercitare la propria sovranità sulla tassazione, la protezione dei consumatori e gli standard del lavoro. L’Europa svolge inoltre una funzione positiva verso il resto del mondo, perché lo spinge ad andare nella stessa direzione e impedisce che la globalizzazione si traduca automaticamente in una “corsa” verso condizioni sempre peggiori per tutti.
Istituzioni più funzionali delle regole
Tutto bene, dunque? Non proprio. Ma la sorpresa è che le istituzioni comunitarie funzionano meglio delle regole comunitarie. E cioè: nei casi in cui gli Stati hanno trasferito quote della loro indipedenza a istituzioni europee, le cose funzionano meglio di quando l’hanno conservato adottando regole comuni. Per esempio, la discussa regola che limita al 3% sul Pil il deficit dei bilanci nazionali è legata alla scelta degli Stati nazionali di conservare l’indipendenza dei loro bilanci, tanto sbandierata dagli ultimi Governi italiani. Ma difendere questa indipendenza significa obbligarsi a regole rigide che non tengono conto delle necessità del momento: di fatto, ad avere minor sovranità. Quando gli Stati hanno rinunciato a difendere l’indipendenza, viceversa, hanno conferito il loro potere a istituzioni comunitarie che non seguono regole rigide e possono perciò prendere le decisioni più opportune secondo i tempi e le situazioni: è quanto ha fatto la Bce, aiutando tra l’altro non poco l’economia italiana.
Conclusione: meglio una collaborazione più stretta, anche con maggiori rinunce all’indipendenza, che una cooperazione più larga, che salva la bandiera dell’indipendenza, ma finisce per limitare la sovranità. Insomma, meglio sviluppare ancora di più le istituzioni europee e rafforzare l’Ue. Esattamente l’opposto di quanto sostengono i sovranisti che dovrebbero piuttosto essere definiti “indipendentisti”.