Da Il Segno di marzo
Vale la pena occuparsi ancora d’Europa? Assolutamente sì: nonostante tutte le stanchezze e le difficoltà, noi popoli, noi donne e uomini del Vecchio continente non abbiamo molto futuro al di fuori della fragile tela di creature istituzionali che in 70 anni si è dipanata e allargata fino all’attuale Unione europea. Fino a qualche tempo fa, poteva reggere, infatti, l’ipotesi di una semplice e tranquilla unificazione economica del mondo, che avrebbe portato spontaneamente pace e democrazia. In cui anche piccoli gruppi o, addirittura, città e regioni avrebbero trovato quasi spontaneamente, senza impegno eccessivo, il proprio meritato posto. Ora, dopo la crisi finanziaria, la crisi pandemica, il ritorno tragico della guerra sulla scena del mondo, ci troviamo in un contesto di giganti che reagiscono allo svanire di quelle certezze (rivelatesi ingenue illusioni) con un marcato rilancio dell’esercizio della statualità.
Questa banale consapevolezza impone di immaginarci anche in Europa una forma di statualità all’altezza di queste difficili sfide della storia: nessuno dei vecchi Stati europei, tantomeno uno Stato intermedio e per molti aspetti periferico come l’Italia, ma nemmeno gli eredi delle vecchie potenze economiche, politiche e militari europee, è di per sé capace di rispondere da solo a questa nuova condizione del mondo.
Il Trattato di Lisbona è ancora attuale?
Nonostante questi avvertimenti dei tempi, i segnali che riceviamo dalle élites, dalla cultura, dalle forze politiche europee appaiono ancora molto deboli e incerti. L’Unione europea, dopo il fallimento del trattato costituzionale all’inizio del secolo, si è adagiata in un modello fondamentalmente intergovernativo e piuttosto farraginoso, quale quello del Trattato di Lisbona. Ha recentemente dispiegato molte energie a costruire e svolgere una Conferenza sul futuro dell’Europa, che ha comportato un ampio coinvolgimento di cittadini e organizzazioni della società civile, ma il processo di conclusione di quell’iniziativa sembra ora stia lentamente affondando in un rimpallo tra organismi europei, che non produce innovazioni di sorta. Allargatasi a 27 Stati (e dopo il trauma dell’uscita del Regno Unito), l’Unione fa fatica a conciliare le volontà governative e soffre di orientamenti interni sempre più polarizzati, spesso ai limiti della compatibilità con i valori democratici scritti nelle origini del percorso di integrazione. Il consenso abbastanza largo che l’Unione aveva sempre raccolto tra i suoi cittadini è stato sfidato a fondo da una reazione populista e sovranista, molto più che euroscettica, che ha raccolto consensi anche tra i ceti medi e i ceti popolari messi in crisi dalla globalizzazione (o dai segnali problematici della sua crisi), giungendo a configurare un fronte di pericolo molto forte per la coesione europea stessa. Di fronte ai conflitti vicini e lontani, la voce europea appare incerta, confusa, a volte semplicemente allineata a una finzione di Occidente coeso che non rende giustizia a un ruolo originale possibile. Alcune grosse sfide, come quelle climatiche e migratorie, sono più oggetto di rivendicazioni retoriche che non di solidarietà visibili e progettazioni incisive.
Il quadro non è confortante. Vero è che la maggioranza pro-europea allargata, costituitasi dopo le elezioni per il Parlamento europeo del 2019, attorno alla nuova Commissione, non solo ha mostrato una certa determinazione nella difesa delle istituzioni, ma ha costruito un progetto di transizione economico-ecologica di fronte alla crisi che ha avuto il senso di coagulare per la prima volta consistenti risorse ed energie per il futuro dell’Europa. La risposta alla pandemia, forzata dalla situazione drammatica, ma certamente non garantita e ovvia, ha fatto il resto. Il meccanismo Sure per aiutare i Paesi membri a combattere gli effetti della disoccupazione d’emergenza (integrazione guadagni di chi aveva perso il lavoro) e il progetto NextGenerationEu (investimenti straordinari per la ricostruzione dopo la pandemia) sono stati due novità assolute. Soprattutto per il loro meccanismo di funzionamento: la scelta della Commissione di indebitarsi sui mercati per raccogliere risorse finanziarie (a tassi ovviamente molto vantaggiosi) per sostenere tali nuovi progetti ha costituito un decisivo passo avanti nella direzione della effettiva presenza dell’Unione, indirizzata dal criterio della solidarietà tra i Paesi membri. I meccanismi degli interventi, infatti, stanno aiutando proporzionalmente di più i Paesi maggiormente colpiti dalla crisi.
Una timida svolta
Quale appare essere, a questo punto, il tema politico vero che condiziona il nostro futuro? La scelta che ci sta di fronte è come consolidare e strutturare questa timida ma non marginale svolta, per farla divenire solida e definitiva, acquisendo un nuovo livello nella «unione sempre più stretta» dei popoli europei (per usare la famosa formula del preambolo al Trattato di Roma). Strategicamente, vuol dire consolidare l’idea che ci vuole “più Europa” per essere al livello della statualità che le nuove congiunture geopolitiche del mondo chiedono. Più Europa significa più risorse e più competenze rispetto a quelle delineate a Lisbona. Significa rendere permanente quello che ancora è contingente e legato alla crisi. Questo obiettivo può essere perseguito in parte attraverso meccanismi politici, mentre in parte chiederà di rivedere le regole, e quindi i trattati stessi.
Non sarà facile procedere in modo armonico con un numero di Paesi alto e in condizioni spesso molto divergenti. Nel caso, occorrerà mettere finalmente in campo un processo di “Europa a più velocità”, che spesso è stato evocato, ma ha preso forma politica quasi solo sul tema della moneta unica. Si tratterebbe, cioè, di gestire cooperazioni più strette e volontarie tra alcuni Paesi decisi a cooperare su selezionate materie, che possano costituire nuclei politici rilevanti, mettendosi poi a disposizione per coagulare anche altri soggetti. Penso sia difficile immaginare, per esempio, di far passi avanti significativi all’unanimità sui temi della sicurezza intesa in senso ampio, non solo come cooperazione militare, ma come insieme di progetti per ottenere una vera autonomia strategica in un mondo di giganti semicontinentali. Su queste dimensioni vitali, la convergenza di alcuni protagonisti sarebbe un punto di partenza irrinunciabile. Diciamo la verità, se ne facessero parte Germania, Francia, Italia e Spagna diverrebbe un vero nocciolo forte di un’Europa politica. Questa pare una delle sfide più cruciali del prossimo periodo.