Un esempio che infonde speranza. Questo è il lascito di Rosario Livatino, il magistrato ucciso dalla stidda agrigentina nel 1990. Domenica 9 maggio la Chiesa, in cui tanto aveva creduto quel ragazzo serio e umile, l’ha proclamato beato. Secondo don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e poi dell’associazione Libera, fiero nemico di tutte le mafie, la beatificazione di Livatino è giunta «in un tempo di angosce alle quali bisogna rispondere con un investimento di intelligenza, di fede ma soprattutto di impegno personale e collettivo». Contro le mafie che sono sempre più intelligenti e tecnologiche, per don Ciotti «serve un meticciato di saperi, un “noi” capace di collaborare senza protagonismi e divisioni interne».
In un tempo segnato dalla pandemia quale messaggio offre la Chiesa con questa beatificazione agli italiani e ai credenti?
Un messaggio innanzitutto di speranza. Perché questa beatificazione ce lo rende vivo, Rosario Livatino, a dispetto di chi l’ha voluto morto. Ci dice che il suo sacrificio per la giustizia è nutrimento spirituale per noi credenti, ma anche un esempio di virtù civile proposto a chiunque abbia a cuore la democrazia, la dignità e i diritti delle persone. Ci dice che alle angosce figlie della pandemia bisogna rispondere con un investimento di intelligenza, di fede ma soprattutto di impegno personale e collettivo, nell’esempio di chi si è messo al servizio del bene fino alla morte.
E alle cosche? Quale messaggio manda secondo lei?
Lo stesso, inequivocabile messaggio che papa Giovanni Paolo II lanciò il 9 maggio del 1993 dalla Valle dei Templi di Agrigento, con l’accorato appello ai mafiosi: «Convertitevi!». Quel giorno il Papa sottolineò, con forza e chiarezza senza precedenti, l’assoluta incompatibilità fra mafia e Vangelo, e dunque la necessità, per la comunità dei fedeli, di schierarsi senza ambiguità contro qualsiasi forma di illegalità, abuso e complicità mafiosa. Poco prima della celebrazione della Messa, Wojtyla aveva incontrato privatamente i genitori di Livatino, e aveva forse già intuito la santità del loro figlio. Non a caso questa data è stata scelta per la beatificazione. Oggi la Chiesa, se vuole essere tale, e non esaurirsi in una risposta puramente civile al fenomeno mafioso, risposta comunque necessaria, deve avere un suo specifico spazio per un “discorso cristiano”, per salvaguardare le specificità di quella diaconia che la Chiesa è chiamata a offrire al mondo. Io credo che la beatificazione di Rosario Livatino sia un importante segnale in questa direzione.
La beatificazione rinvia alla memoria di quegli anni. Cosa è cambiato da allora nella lotta alle mafie?
Sono le mafie per prime a essere cambiate. Sono diventate sempre più intelligenti dal punto di vista tecnologico e finanziario, con nuovi intrecci, nuove vocazioni criminali, nuove strategie di penetrazione dentro i circuiti del potere politico ed economico legale, pur senza abbandonare i tradizionali interessi e le forme di presenza sui territori e lo sfruttamento di ogni forma possibile di arricchimento illegale. Le mafie si trovano oggi sulle diverse piazze finanziarie: è il business mafioso transnazionale e globale con livelli sempre più sofisticati. Rosario Livatino già aveva intuito alcune dinamiche che si sono poi confermate negli anni. È stato fra i primi magistrati italiani a perseguire reati ambientali e ad applicare la normativa sulla confisca dei beni mafiosi voluta da Pio La Torre, in seguito rafforzata per consentire l’uso sociale di quei beni. Oggi esiste una cooperativa che coltiva i terreni sottratti alle famiglie mafiose agrigentine, e porta proprio il nome di Livatino. Il suo nome simbolicamente rivive nei prodotti buoni e giusti frutto di quel lavoro, nell’impegno dei giovani che a lui si ispirano: al suo coraggio, alla sua responsabilità, alla sua umiltà e trasparenza nel difendere il diritto ma prima di tutto i diritti e la dignità delle persone. La lotta alla mafia oggi è anche questo impegno plurale, dal basso, che colpisce i criminali nelle loro ricchezze ma soprattutto nel prestigio sociale che purtroppo in certi contesti continuano ad avere.
Cosa rischiamo oggi? A cosa la società civile deve stare più attenta?
Il rischio è quello di una normalizzazione e banalizzazione, nella percezione della gente, del fenomeno mafioso. Si fatica ad avere una visione completa e complessa di che cosa sono oggi le mafie e i loro “derivati”: problemi come la droga o le ludopatie – cioè la dipendenza dal gioco d’azzardo – la tratta di esseri umani, la prostituzione, il caporalato, il racket, l’usura e i reati ambientali sono quasi sempre legati alle logiche criminali mafiose. C’è un carico di sofferenza invisibile eppure crescente, dato dalla mercificazione delle persone, dalla speculazione sulle loro fragilità, dagli attacchi all’integrità della natura. Dove non c’è mafia, c’è una mafiosità dei comportamenti non meno pericolosa: quel mettere al centro i profitti, a scapito dei diritti, così spesso denunciato da Papa Francesco. Ecco perché non possiamo illuderci che per combattere le mafie basti l’impegno degli “addetti ai lavori”: magistrati e forze di polizia. Serve invece un impegno educativo, sociale, politico. Un pensiero nuovo, radicale, rigeneratore, in grado di cambiare i paradigmi che fanno delle mafie un modello culturale ancora vincente. Serve un meticciato di saperi, un “noi” capace di collaborare senza protagonismi e divisioni interne.
Quali errori (se ne intravede) sono stati compiuti in passato dalla magistratura nella lotta alla mafia e che ha cercato di riparare?
Parlare di errori mi sembra ingeneroso, di fronte al prezzo tremendo che la magistratura italiana ha pagato nella lotta alle mafie, come la fine stessa di Livatino testimonia. Ci sono però state, in certi contesti, delle sottovalutazioni. Così come ci sono state e ci sono, da parte di singoli magistrati, delle fragilità, delle compromissioni e talvolta delle vere e proprie forme di complicità venute alla luce. Ma si tratta per fortuna di casi isolati. Va detto che gli strumenti normativi per il contrasto ai fenomeni mafiosi si sono rafforzati nel tempo, spesso proprio su impulso dei magistrati impegnati in prima linea. Le leggi, per esempio, sulla confisca e l’uso sociale dei beni mafiosi sono un vanto per l’Italia, come quelle sul voto di scambio e altre forme di ingerenza mafiosa nella politica. Malgrado tutte queste norme possano essere migliorate, soprattutto in fase di applicazione, bisogna riconoscere l’ investimento che è stato fatto, per dotarsi di mezzi sempre più accurati ed efficaci per combattere la criminalità mafiosa; anche se la strada da percorrere è ancora lunga.
Ha un ricordo personale del giudice?
Non ho conosciuto Rosario Livatino, ma ho avuto il privilegio di incontrare i suoi genitori e di tenere fra le mani i suoi diari. Attraverso quelle pagine così dense di passione civile e religiosa, mi è sembrato davvero di entrare in relazione con lui, di averlo conosciuto da sempre. Rosario è stato un magistrato, ma prima ancora un uomo, davvero fuori dal comune. Tanto intelligente e risoluto nel lavoro, quanto umile e riservato. Non cercava visibilità, era estraneo a qualsiasi forma di compiacenza o compromesso. La sua fede era profonda e mai esibita, coltivata con radicalità e purezza di cuore. Ciò che colpisce, è che il coraggio del suo agire non nasceva da grandi certezze, piuttosto da grandi domande. Livatino era un uomo del dubbio. Si interrogava continuamente e senza sconti sulle responsabilità del proprio ruolo di giudice, sull’autenticità della propria fede, sulla capacità di perseguire attraverso il mezzo della legge il fine più alto della giustizia. È stato proclamato beato perché ucciso «in odium fidei»: quel suo mettere la propria vita interamente delle mani di Dio, quel suo affidarsi consapevole delle proprie fragilità di uomo, ma anche dell’infinita misericordia del Padre, ha innalzato la sua opera di giustizia a un livello tale, che i mafiosi hanno trovato nell’omicidio l’unica strada per porvi fine. Una fine illusoria. Oggi con la beatificazione, e con l’impegno plurale che continua nel suo nome, sappiamo che Rosario è più che mai vivo.