È un inizio d’anno di grande timore quello che stanno vivendo in questi giorni migliaia di persone disabili in Italia. All’interno della consueta circolare di fine anno che adegua gli importi delle provvidenze economiche per invalidi civili, ciechi civili e sordi in base agli indicatori dell’inflazione e del costo della vita, l’Inps ha inserito una novità allarmante e inattesa.
Se infatti, fino a oggi, al raggiungimento del limite reddituale per le pensioni di invalidità concorrevano soltanto i redditi personali, dal 1° gennaio 2013 vengono presi in considerazione anche quelli del coniuge. Dunque, se in una famiglia con il marito o la moglie invalido civile al 100% il reddito complessivo supererà i 16.127,30 euro lordi all’anno, si perderà il diritto alla pensione di 275,87 euro mensili. Una piccola cifra, ben al di sotto di ogni relazione con i reali bisogni quotidiani di una persona con disabilità, che tuttavia costituisce spesso una risorsa indispensabile per quelle famiglie, già in difficoltà, che ora si trovano ancor più incomprese e indebolite. Il nuovo indicatore reddituale è nondimeno discriminante perché, in barba a ogni trattamento di equità sociale, riguarda soltanto gli invalidi civili al 100% e non quelli parziali, i sordi e i ciechi.
La decisione dell’Istituto di previdenza non è, almeno in apparenza, di natura politica. Nella circolare n. 149 del 28 dicembre 2012, infatti, l’Inps basa la sua interpretazione su una sentenza della Corte suprema di Cassazione (Sezione lavoro 25 febbraio 2011, n. 4677) pronunciata non a sezioni unite e di tendenza contraria rispetto ad altri orientamenti già espressi dallo stesso tribunale. Le associazioni di categoria hanno minacciato ricorsi e il presidente della Fish (Federazione italiana superamento handicap), Pietro Barbieri, ha parlato di una decisione che «colpisce i più poveri espropriandoli di una pensione dall’importo risibile» e ha invocato «chiarezza rispetto ai meccanismi di assunzione di tale provvedimento: vogliamo sapere chi, dall’interno dei Ministeri responsabili, abbia avallato questa iniqua decisione».
Quel che risulta più sorprendente, però, è il tentativo evidente di danneggiare quelle famiglie che, spesso con maggiori sacrifici, sono riuscite a costituirsi nonostante le circostanze assai difficili. In un contesto socio-economico senz’altro avverso alle persone più fragili la disposizione dell’Istituto, peraltro impegnato ormai da anni in una dispendiosa e farraginosa caccia ai “falsi invalidi”, segna un ulteriore passaggio nel degrado dei diritti di cittadinanza. Sebbene l’Inps non si richiami ad alcun dettato normativo, è difficile credere che la decisione non sia stata avallata da una precisa volontà politica. La stessa che, negli ultimi anni, ha cercato di legare a più riprese le indennità di accompagnamento al reddito e di introdurre principi iniqui di compartecipazione alla spesa pubblica senza differenziare prima le modalità di sostegno in base alle esigenze concrete dei cittadini.
In una campagna elettorale che già si è fatta rumorosa, stride il silenzio bipartisan sulla questione. Perché la scelta dell’Inps non andrà soltanto a ledere le condizioni economiche e sociali già precarie in cui vivono migliaia di persone disabili, ma sancirà un allontanamento marcato da quella ventilata politica per la famiglia che sembra occupare i primi posti della futura agenda di governo. Ci si ricorderà che la famiglia non è semplicemente un cumulo di redditi da cui attingere risorse?