«La Dc aveva dentro di sé la linea di faglia tra il partito dell’immobilismo e quello dell’evoluzione rispetto agli equilibri sociali del Paese». Guido Formigoni, docente di Storia contemporanea all’Università Iulm di Milano, è uno dei tre autori (gli altri sono Paolo Pombeni e Giorgio Vecchio) del volume Storia della Democrazia cristiana 1943-1993 (Il Mulino, 720 pagine, 38 euro). A 30 anni dalla sua fine, questa approfondita e puntuale ricostruzione storica consente di fare memoria del partito perno della cosiddetta prima Repubblica, architrave della democrazia e della ricostruzione del Paese, uscito devastato dal Ventennio fascista e dalla guerra. Il libro sarà al centro di un dibattito lunedì 19 febbraio alle ore 18 alla Fondazione Ambrosianeum (via delle Ore 3 a Milano), in un incontro promosso con l’associazione Citta dell’uomo (leggi qui).
Innanzitutto le motivazioni che vi hanno spinto a scrivere questo libro. La storia della Dc è stata una vicenda archiviata troppo in fretta, poco considerata?
È stata una vicenda che ha questo curioso destino nella memoria collettiva: da una parte essere demonizzata (tutti i fallimenti della prima Repubblica, le pagine oscure, i misteri, i complotti sono attribuiti alla Dc) e dall’altra invece è oggetto di nostalgia, di fronte alla scoperta che la classe politica che è venuta dopo non sempre si è mostrata migliore. Allora per sottrarla a questo duplice destino la memoria va storicizzata, va collocata nel tempo, cercando di capire cosa veramente fosse questa cospicua esperienza collettiva, che ha segnato profondamente la storia della Repubblica.
La Dc è stata il perno della cosiddetta prima Repubblica: solo un partito-Stato o qualcosa di più?
Abbiamo usato quattro espressioni sintetiche. È stato un partito di ispirazione cristiana, quindi legato al filone di credenti che ha scoperto la democrazia e anche l’aconfessionalità, la laicità della politica. È stato un partito-Stato, perché ha governato per quasi 50 anni, per tutta la durata della sua vita, e si è quindi identificata col potere gestendolo con capacità di coalizione, di costruzione del consenso variabili nel tempo, ma sempre efficaci. Ma è stato anche un partito-società, che ha interpretato, seguito, rappresentato la società nelle sue diversità, nelle sue dimensioni locali, nella sua complessità. A volte tirandone fuori il meglio, altre invece blandendo, accarezzando e tollerando anche il meno buono della società. Infine è stato un partito plurale, ma flessibile e unitario, perché aveva dentro di sé questa complessità che portava anche a scontri e a tensioni. Nonostante ciò era sempre capace di ricompattarsi, rappresentando un grande fattore di successo. Anche i perdenti venivano ricompresi nella direzione unitaria che si faceva dopo i congressi, anche quelli più duri. Però è stato anche un limite, perché tutte le volte che si è provato a fare un’accelerazione politica poi bisognava tener conto dei perdenti e questo implicava moderare, limitare, circoscrivere gli effetti dei cambiamenti.
La Dc ha saputo intercettare una larga fetta dell’elettorato moderato, anche molto conservatore, per realizzare una politica riformatrice. È stato uno dei suoi meriti storici?
Sì, la metafora di Alcide De Gasperi (la Dc è un partito di centro che si muove verso sinistra) è abbastanza efficace lungo tutta la sua parabola. Questo è stato possibile nella prima parte del suo percorso. Molti utilizzano simbolicamente la vicenda dell’assassinio di Aldo Moro come un punto di svolta. Nella seconda parte questo si è rivelato molto più difficile, perché diversi aspetti sono entrati in difficoltà: il rapporto con il mondo cattolico per la secolarizzazione del Paese e i cambiamenti nella Chiesa; si è entrati nella fase della globalizzazione e della riduzione dell’influenza degli Stati; la società è diventata molto più complessa, difficile da unificare e da rappresentare. Conseguentemente si sono polarizzate le posizioni interne. Quindi portarsi dietro il moderatismo italiano è diventata un’operazione sempre più difficile. Questo spiega in gran parte anche le ragioni della sua decadenza e del suo fallimento finale che è apparso così improvviso. La Dc chiude e cambia nome con Mino Martinazzoli quando era ancora al 29% del consenso. Oggi sembrerebbe assolutamente assurdo.
Quali sono le stagioni migliori e invece gli errori più gravi?
Le stagioni più efficaci sono quelle dei primi due decenni, fino agli anni Sessanta: il centrismo e il centro-sinistra, con tutti i loro limiti, hanno avuto la capacità di prendere in mano un Paese che era sconfitto, marginalizzato, ancora socialmente ed economicamente piuttosto arretrato e guidarlo, accompagnarlo verso la modernizzazione, inserendolo nell’Occidente, in un disegno europeo, con un’apertura internazionale tutt’altro che banale e non così subalterna e allineata ai potenti dell’epoca, come spesso si è detto. I momenti più difficili, e quindi anche i conseguenti errori, sono maturati soprattutto dopo gli anni ‘70, quando appare già un partito in crisi, che viene identificato come logorato da 30 anni di “regime”, come allora urlavano i giovani nelle piazze, e si comincia a dire “non moriremo democristiani”; Paolo Pasolini scrive sul Corriere della sera che bisognerebbe fare il processo alla Dc e ai suoi dirigenti, il palazzo è chiuso in se stesso. Un’andata di crisi a cui si reagisce, però queste reazioni (il rinnovamento di Zaccagnini, l’apertura agli esterni cattolici nei primi anni ‘80, la strategia di modernizzazione di De Mita) sono tutti tentativi fragili che non riescono a dare una credibile alternativa di governo. Tant’è che l’ultimo decennio di vita del partito si adatta a questa alleanza-non-alleanza che è il pentapartito, che non riesce a esprimere un modello incisivo di gestione del rapporto tra Paese e mondo.
Un partito di ispirazione cristiana, aconfessionale, laico. Eppure i rapporti con la gerarchia, che ha sempre invitato all’unità dei cattolici, non sono sempre stati così pacifici…
No, certo. Qui c’è stato un paradosso: la Dc non nasce come partito della Chiesa, ma come esperimento di gruppi, di laici, di ex popolari, giovani formati nell’Azione cattolica che si mettono assieme e che la Chiesa accetta e riconosce. Infatti De Gasperi fa di tutto per ottenere questo riconoscimento, perché sa quanto è importante che la Chiesa non ostacoli la transizione alla democrazia, come aveva fatto negli anni Venti di fronte alla crisi dello Stato liberale. Quindi l’appoggio è convinto, ma cerca di portare la Dc su posizioni che in gran parte il partito non vuole percorrere. Si pensi all’idea, promossa da padre Riccardo Lombardi nell’elezione del 1948, di ricostituire uno Stato confessionale, un’Italia ufficialmente cattolica. C’è questa tensione che sfocia nel duro braccio di ferro sull’apertura a sinistra. Quando la Chiesa inaugura un percorso di rinnovamento con il Vaticano II che riconosce l’aconfessionalità, l’autonomia del ruolo dei laici nella società e nella politica, la Dc invece di valorizzare questa novità si preoccupa del rischio di non avere più il consenso, di essere lasciata sola. Quindi ci sono tentativi di ritornare a blandire la gerarchia e il mondo cattolico, mentre al proprio interno ci si allontanava sempre di più, perché veniva avanti una generazione che non era stata formata nelle parrocchie, nelle associazioni del mondo cattolico, ma era tutta politica. Questo vale fino agli ultimi giorni del partito e nell’esperienza del Partito popolare dall’inizio del 1994: si cerca un consenso mettendo come dirigenti persone prese dall’associazionismo senza capire che questo è molto diviso e non può essere l’unica risorsa che tenga insieme un partito.
Sono passati 30 anni dalla fine della Dc. Qual è la lezione di quella storia per la politica di oggi?
Trent’anni si sentono tutti. L’epoca è cambiata tantissimo. Il messaggio che viene da quella storia è che se la politica vuol essere efficace e cambiare realmente, non può essere affidata solo a leadership che cercano un consenso effimero, ma non può che essere esperienza collettiva, faticosa, paziente, che metta insieme le persone, che aiuti a fare quell’operazione in fondo difficilissima di trasformare il conflitto potenziale tra gli esseri umani in convivenza pacifica e ordinata. Questo oggi sembra sempre più difficile, oggettivamente lo è perché la società è diventata più complessa, più sfrangiata, più individualista di un tempo, ma è la sfida che ogni politica non può che porsi se vuole essere capace di incidere nella realtà.