La pace che è alle nostre porte, che chiede di entrare e alla quale qualcuno deve aprire. È questa la convinzione e, insieme, la consegna con cui l’Arcivescovo conclude il dialogo dal titolo «La pace è un’utopia?» presso l’Auditorium della Iulm, nel contesto degli incontri con studenti, docenti e personale, che la Pastorale universitaria della Diocesi organizza ogni anno negli atenei della città.
«La pace è stata cacciata ed è cominciato l’inferno. Qualche volta ho l’impressione che, in certi punti della terra, avvenga così e vi sia il tutti contro tutti». Ma dove è andata, allora, questa pace? È la domanda che monsignor Delpini si pone di fronte a insegnanti e giovani, al vicario episcopale di Settore monsignor Giuseppe Como, ai cappellani universitari riuniti con il responsabile della Sezione don Marco Cianci.
«Io credo che la pace sia alle nostre porte, ma che qualcuno debba farla entrare. La pace chiede a ciascuno di noi di andare alla porta e dire “entra”, parlando di perdono, giustizia, dicendo una parola amica. Entra pace, altrimenti la vita si trasforma in un inferno». Un inferno segnato, però, dalla speranza cristiana che «cambia le cose» e trova spazio nella testimonianza della linguista e docente Elena Mazzola.
Dopo i saluti istituzionali del rettore Gianni Canova (che osserva: «La domanda se la pace sia un’utopia è tanto drammatica che definirla urgente è poco») e del presidente Giovanni Puglisi («dobbiamo pensare a una riconversione, non solo ambientale, ma anche delle fabbriche di armi, perché se non si fa così l’utopia non è la pace, ma il futuro dell’uomo»), è Matteo D’Argenio, docente di Diritto internazionale e Organizzazione internazionale alla Iulm, a parlare della pace in Europa.
La pace e la costruzione dell’Unione europea
«La pace è il valore su cui il diritto internazionale si interroga ormai da secoli, ma attualmente i meccanismi di difesa collettiva stanno funzionando solo in minima parte, Oggi c’è un numero crescente di Stati che non rispetta il diritto internazionale e lo viola platealmente – sottolinea subito -. Come possiamo noi cittadini europei contribuire alla pace, fare qualcosa, sapendo che ognuno di noi ha un doppio passaporto, la propria nazionalità e l’appartenenza europea?».
Anche perché l’Europa unita pone la pace alla base della sua costruzione, secondo quanto predicano il trattato di Nizza e l’articolo 2 del Trattato sull’Unione che stabilisce i valori comuni nel rispetto della dignità umana, della libertà, democrazia e uguaglianza. «Adesso abbiamo un’occasione straordinaria per ribadire tutto questo: le elezioni per rinnovare il Parlamento europeo che ci rappresenta e rappresenta la possibilità di un modello di maggiore integrazione. Sta a noi decidere da che parte stare, esercitando il nostro dovere-diritto di votare e informandoci. Dobbiamo decidere se è più utile un’Europa che si integra in diversi ambiti, o un’Europa spezzettata dove le Nazioni si riprendono i valori sovrani che avevano attribuito all’Unione».
In fondo, una scelta ovvia – suggerisce il docente – per la quale «non servono grandi teorie, ma anche il semplice utilitarismo di avere a disposizione una moneta comune, frontiere aperte, possibilità di lavorare e studiare all’estero con facilità».
Ciò che era stato «il sogno dei nostri nonni che, inorriditi dalle distruzioni della guerra, decisero di condividere, prima il carbone e l’acciaio e poi, via via, molto altro, fino ad arrivare al mercato unico e alla moneta». Eravamo poveri, con città distrutte» e quella fu una strada di speranza, soprattutto considerando «che tutte queste devoluzioni, vennero operate liberamente dagli Stati nella consapevolezza che fosse bene mettere in comune le risorse. Ognuna delle Nazioni che è entrata nell’Unione ha fatto una valutazione di convenienza. Il boom di tante Nazioni europee è passato da lì, da ciò che era stato preconizzato da dei visionari, da grandi capi di Stato e di governo che condivisero l’idea di dare all’Europa un assetto federale, l’unico in grado di salvaguardare i suoi valori evitando il ritorno dei nazionalismi».
L’invito ripetuto è di andare a votare, perché «il momento è critico, e mai si erano viste contestazioni così aperte e sfacciate di quei principi di pace che ci eravamo dati».
Fare qualcosa si può
Esperienziale e commovente, la testimonianza di Elena Mazzola, che dal 2002 al 2016 ha vissuto e lavorato a Mosca, trasferendosi poi in Ucraina per dirigere il “Centro di Cultura Europea Dante” di Kharkiv e ora in Italia a causa della guerra: «In che modo un cristiano può vivere e guardare alla speranza quando tutto nella guerra sembra dire il contrario? Io vi parlo della guerra avendone fatto esperienza. Per parlare di pace dobbiamo comunque parlare di guerra, altrimenti si rischia di parlare più che della pace del “lasciateci in pace” – chiarisce -. A Kharkiv, una città grande come Milano, universitaria e bellissima, oggi assediata e continuamente bombardata, adesso vivono un milione di persone. Quando parlo di orrore, parlo di odio, di amici ritrovati a pezzi in fosse comuni».
Un racconto pubblico del conflitto che si intreccia con la storia personale della docente, coinvolta, da anni, nella vita di alcuni ragazzi abbandonati da tutti dopo l’uscita, alla maggiore età, dagli orfanotrofi di Stato. Opera che si chiama «Emmaus» e che ha creato delle case di accoglienza per questi ragazzi, con la presenza di adulti di sostegno, arrivate a essere nove all’inizio della guerra.
«Ho capito – prosegue Mazzola – che eravamo comunque pochi per mettere al sicuro i ragazzi, per cui abbiamo iniziato ad allontanarli da Kharkiv prima dell’inizio del conflitto. I maschi abili sono stati mandati in Italia da famiglie amiche, le ragazze, soprattutto con disabilità, sono rimaste con me. Eravamo a Leopoli quando la guerra è scoppiata e ora siamo in Italia con 25 di questi giovani che vivono da amici e in appartamenti. Abbiamo perso tutto, con il dolore di un male che sembra non finire mai, eppure dentro questa guerra c’è un’esperienza di pace reale».
Come nella stoia di Tamara, arrivata in Italia e che studia in Cattolica, o di Roman, orfano, rimasto in Ucraina con una dipendenza grave dall’alcol, combattente e, poi, disertore per salvare una bambina di 9 anni, Cristina, strappata alla madre, rapita dai soldati russi e abbandonata per strada. Bimba che riesce a portare dalla propria nonna, superando 40 posti di blocco e fingendosi fratello e sorella. Roman che, ricorda Elena Mazzola, dice nel suo italiano creativo: «Io sono stato protetto dalla Madonna, perché quando ero a Bachmut, facevo sempre la preghiera alla Maria anche a voce alta per i miei compagni». La preghiera Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam, insegnatagli in italiano come a tutti i ragazzi di «Emmaus», per la grande maggioranza ortodossi.
«C’è un aspetto nella famiglia umana che ha permesso a un ragazzo problematico di portare del bene nell’inferno riconoscendo il bene del bene dell’umano: essere uno. Per parlare di pace dobbiamo immedesimarci con chi vive la guerra, chiedendoci se possiamo costruire un luogo vero di pace. C’è un popolo che mi educa, mi sostiene, non solo nella mia comunità, ma nella generosità che vedo intorno a noi. Non perdiamo l’occasione di muoverci per riconoscersi uno»», termina Mazzola citando don Carlo Gnocchi e i suoi famosi scritti, Cristo con gli alpini e Pedagogia del dolore innocente, dove il beato comprese la sofferenza atroce dei bambini mutilati, «insegnando loro a offrirla al Signore e a dare un senso al dolore. Come a dire, davvero si può fare di più e noi cristiani abbiamo una responsabilità precisa, avendo ricevuto un amore più grande, il Signore, e vivendo della speranza che non delude mai.