Papa Francesco lo ha detto in più occasioni: il Mediterraneo è diventato il cimitero più grande d’Europa. Un mare meraviglioso che nelle ultime ore si è confermato tra le rotte più letali al mondo. Stando a quanto dichiarato dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni, durante un naufragio al largo della Libia il Mediterraneo ha inghiottito 73 vite. Altre 70 persone sarebbero morte in due distinte tragedie del mare, questa volta nell’oceano Atlantico.
Il testo
Nelle stesse ore la Camera dei deputati ha approvato in via definitiva con 187 voti favorevoli, 139 contrari e tre astenuti, il decreto Piantedosi, conosciuto anche come Dl Ong, che passa ora al vaglio del Senato, il quale dovrà convertirlo in legge entro il 3 marzo.
Il testo prevede una serie di misure che le Ong dovranno rispettare per non incorrere in una sanzione amministrativa fino a 50mila euro oltre al fermo della nave per due mesi. Tra le condizioni elencate nel testo, l’obbligo per il comandante di richiedere subito l’assegnazione del porto di sbarco e di raggiungerlo senza ritardi; fornire informazioni per la ricostruzione dettagliata dell’operazione di soccorso e informare le persone tratte in salvo della possibilità di richiedere la protezione internazionale e, in caso di risposta affermativa, raccogliere i dati rilevanti da mettere a disposizione delle autorità.
La linea che prevale
Un decreto che per il presidente del Centro Astalli, padre Camillo Ripamonti, ancora una volta fa «prevalere la linea del difendere i confini. In questi anni non si è fatto altro che trattare in difesa il tema delle migrazioni e dei flussi migratori e questo comporta una non difesa delle vite delle persone che si mettono in mare senza alcuna sicurezza. È noto che dai centri di detenzione libici le persone vengono spesso costrette a salire sulle imbarcazioni anche in condizioni climatiche sfavorevoli».
Per il sacerdote trattare prevalentemente il fenomeno dal punto di vista della salvaguardia del proprio territorio, senza «mettere al centro la vita degli esseri umani», trasforma le direttrici dei flussi migratori, tanto le rotte via mare quanto quelle via terra, in «ulteriori luoghi di morte e di violenza per le persone. Per uscire da questa situazione occorre un cambio di rotta totale: non difendere i propri confini ma le persone che devono vedere riconosciuti i propri diritti. Non è più accettabile che non siano garantiti i diritti di chi si vede costretto a lasciare la propria patria per vari motivi, fosse anche per l’ingiustizia che regna sovrana nel mondo».
Dove nasce l’insicurezza
Soffermandosi sul decreto Piantedosi, padre Ripamonti ritiene che «non si va nella direzione giusta. Bisogna mettere al centro la tutela delle persone e anche tutti coloro che concorrono alla salvezza di vite in mare devono essere aiutati a farlo nel migliore dei modi con la necessità sempre più urgente che sia l’Unione Europea a prendersene carico, non nella logica della difesa dei confini ma in quella della sicurezza dei viaggi. Non sono queste persone che creano insicurezza nei nostri Paesi, lo è piuttosto il lasciarli in balia dei trafficanti».
Per il presidente del Centro Astalli tutti gli Stati europei devono quindi aprire le porte e garantire in egual misura accoglienza a chi fugge dalla propria terra per varie ragioni, tenendo presente che presto potrebbero arrivare in Europa anche le numerose famiglie che hanno perso tutto a causa del terremoto al confine tra Turchia e Siria. «Temo che dopo l’iniziale attenzione e compassione di questi giorni, legate alle immagini trasmesse in televisione, dimentichiamo il loro dramma facendo in modo di non farle arrivare – afferma Ripamonti -. Mi auguro di sbagliare, anche perché il terremoto che ha colpito la Siria deve sommarsi a 12 anni di guerra nel Paese. Queste persone non possono rimanere in balia degli eventi, devono avere la possibilità di trovare in Europa una vita dignitosa. L’esperienza dell’Ucraina ci ha insegnato che se abbiamo la volontà di accogliere possiamo farlo».
Una cittadinanza che esclude
Parlando invece della procedura di infrazione contro l’Italia avviata ieri dalla Commissione europea, che ritiene i requisiti di residenza per ottenere il reddito di cittadinanza e l’assegno unico “discriminatori” verso i lavoratori Ue e quanti godono di protezione internazionale, Ripamonti specifica che «il criterio della residenza è sempre più spesso un criterio formale per distinguere chi ha diritto e chi no a determinate risorse. È una cittadinanza che esclude. Negli ultimi 30 anni abbiamo scardinato lo Stato sociale e ora quello che possiamo fare è immaginarne uno che vada incontro a quelle persone che ne hanno davvero bisogno. Più che intendere questa procedura in senso di punizione si può cogliere l’occasione per andare incontro alle fasce di popolazione più povera, per costruire una comunità sempre più coesa indipendentemente dalla provenienza e dal tempo di permanenza sul territorio».