Da Il Segno di marzo
Le elezioni per il Parlamento europeo sono sempre state considerate, a torto, un secondo tempo, una sorta di verifica di quelle nazionali. Come avviene per il voto di mid term negli Stati Uniti. O un modo per offrire un’alternativa a chi non ha ottenuto incarichi nazionali o è stato deluso nelle proprie aspettative personali. Un errore che non vorremmo si ripetesse anche questa volta, anche se lo temiamo fortemente.
Le leggi nazionali non bastano
Le nostre vite future dipendono più da quello che decidono i parlamentari europei e sempre meno dalle leggi nazionali. Queste ultime recepiscono spesso norme europee. Un male? No, un bene. Perché come potremmo affrontare, ed eventualmente contrastare, fenomeni globali di enorme complessità con le sole nostre leggi nazionali, per quanto impeccabili? E, infatti, la regolamentazione dell’intelligenza artificiale è frutto del legislatore comunitario. Così come le norme sull’uso e sulla disciplina della Rete. E, nonostante siano il risultato di faticosi compromessi tra 27 Paesi, i dubbi sulla loro efficacia applicativa in un mondo globalizzato non mancano. L’auspicio è, dunque, quello che i vari schieramenti in campo scelgano candidati di qualità e soprattutto disposti a rimanere in carica per cinque anni. I dossier sono complessi. Se i parlamentari non sono preparati, mancano di esperienza o non vedono l’ora di lasciare Strasburgo per tornare in Italia, oltre a non fare una bella figura rischiano di creare seri danni al loro Paese. Qualunque sia il loro partito o l’affiliazione alle famiglie politiche europee.
Cambiamenti irrinunciabili
Quando si votò per la prima volta per il Parlamento europeo (9 i Paesi membri compreso il Regno Unito), l’entusiasmo italiano sembrava incontenibile. Andò al voto l’85% degli aventi diritto. E allora l’assise comunitaria contava molto poco. Non come adesso. Ed è ovviamente un singolare paradosso, tale da sollevare seri interrogativi sulla qualità delle democrazie rappresentative, che la partecipazione popolare sia stata, negli anni, inversamente proporzionale ai poteri dell’assemblea. Prerogative cresciute molto se si pensa soltanto a quante decisioni delle istituzioni comunitarie, e dunque anche del voto degli eletti, hanno inciso sulle nostre vite quotidiane. Magari a qualcuno, vengono in mente le polemiche sul diametro delle vongole o sulla lunghezza delle banane. Certo gli eccessi non sono mancati. Ma senza il voto europeo non avremmo avuto tanti cambiamenti delle nostre abitudini personali ormai diventate tradizioni, alle quali non sapremmo più rinunciare. Vogliamo fare qualche esempio? La fine del roaming selvaggio che moltiplicava, all’estero, il costo delle telefonate. L’introduzione dell’Iban che facilita le operazioni bancarie senza frontiere. La difesa della nostra privacy in Rete con l’adozione del Gdpr (General data protection regulation), cioè il consenso informato sull’uso dei dati personali. La possibilità di comprare on line senza limiti in tutti i Paesi membri. L’adozione del progetto Erasmus che ha consentito finora a 9 milioni di ragazze e ragazzi di studiare all’estero. Il marchio “Ce” a tutela della sicurezza di tutti i prodotti che compriamo. Il numero di emergenza 112, uguale per tutti. Il Pnr (Passenger nome record) che mostriamo al controllore su ogni treno europeo. La tessera sanitaria europea. E via di seguito.
Lo scandalo del voto dei giovani
Non ci facciamo grandi illusioni sul fatto che in questi mesi cambi la percezione dell’importanza del voto europeo. Ma è sperabile che l’affluenza inverta il suo declinante e umiliante corso. In alcuni casi si voterà anche per le amministrative e ciò suscita qualche previsione positiva sulle affluenze. Certo sarebbe bello se, da qui all’8 e 9 giugno, tutti i partiti insieme riducessero i limiti dell’elettorato attivo (18 anni) e passivo (25). I più alti nell’Unione europea. C’è chi fa votare i sedicenni ed elegge i diciottenni. Noi no. Parliamo tanto di giovani che se ne vanno. Il Parlamento europeo giocherà un ruolo fondamentale nel disegnare e condizionare il loro futuro. E noi italiani, per tutta risposta, siamo quelli che attribuiscono ai giovani meno diritti politici dei loro coetanei europei. Curioso? No, scandaloso. Se Milano è l’unica città europea italiana – e non è un primato italiano di cui vantarsi – sarebbe bello che facesse sentire di più la propria voce a favore dei giovani, visto che ormai è una città universitaria con tanti studenti che arrivano da tutto il mondo.