Basta tenere un cartello in mano con scritto «NET» per essere arrestati, ma anche solo 7 asterischi, tanti quanti sono le lettere di «Net Voiné», no guerra, sono sufficienti per essere fermati, sottoposti a interrogatorio e poi multati; 380 euro si è preso Dmitriy Reznikov per gli asterischi. Gira sui social la foto di uno zainetto, la cui proprietaria aveva scritto con lo scotch «pace» e da una tasca traspariva la parola «guerra» sbarrata. A lei 400 euro di multa. A Ekaterinburg Anna Loginova è stata in prigione nove giorni perché il 19 marzo ha attraversato la città vestita di nero e con dei fiori bianchi, insieme ad altre attiviste. Yuri Kozhevnikov è semplicemente scomparso a Voronezh il 19 marzo. La testata Ovd-Info non interrompe i report quotidiani sulle azioni di protesta che segnano la carta della Russia e sulle conseguenze che subiscono i protagonisti.
Fermati e denunciati
La cifra dei fermati, dal 24 febbraio, ha superato quota 15 mila. Nel panorama delle testate che denunciano c’è anche Activatica.org, risorsa online in lingua russa dedicata all’attivismo civico, che riporta casi e storie di ordinaria opposizione. Sotto inchiesta è ora la testata Sota e la sua direttrice Daria Poryadina con tre collaboratori: perquisite le loro abitazioni, sono interrogati dalla polizia mentre scriviamo. In attesa di sentenza i quattro giovanissimi studenti che editano la testata universitaria Doxa.
Poi ci sono i casi “famosi” di dissidenza, come quello della giornalista televisiva Marina Ovsiannikova apparsa con un cartello contro la guerra dietro la speaker di Primo canale: per ora ha preso una multa di 30 mila rubli, ma rischia il processo penale. Dalla Francia, una sua collega che faceva la corrispondente di Primo canale, Zhanna Agalakova, nei giorni scorsi si è licenziata. Non sarebbe l’unica giornalista del canale televisivo di Stato.
Chi se ne va
Ci sono poi persone che silenziosamente stanno lasciando il Paese: oltre 50 mila si sarebbero finora trasferiti in Armenia, gli Emirati Arabi sono un’altra meta amata per chi deve difendere i propri averi dalle sanzioni; in Occidente cercano nuovi sbocchi insegnanti, accademici, intellettuali. «Approvo molto quello che fanno – racconta al Sir una fonte cattolica che vive a Mosca e chiede di restare anonima -. Molti hanno un forte senso delle libertà personali e questo non lascia loro motivi per restare. C’è chi lascia perché ha paura per il proprio futuro: si fermeranno le possibilità di crescita e di carriera in molti ambiti». Chi riesce a espatriare è una minoranza, «molti non hanno queste possibilità».
«È inaccettabile la limitazione della libertà di parola, di protesta, a cui siamo costretti ora – continua a raccontarci la nostra fonte -, ma non penso comunque che farebbe una grande differenza se non ci fosse, perché, da quello che io osservo, la maggioranza della popolazione sostiene fortemente il governo e il sistema in Russia. Lo so che è uno dei temi che accompagnano questa guerra: perché i russi non protestano? Ma dopo 70 anni di comunismo e 20 di Putin, la capacità dei russi di protestare e credere semplicemente che il cambiamento è possibile ed è un bene, è veramente molto molto indebolita. Non c’è purtroppo un’opposizione politica attuabile».
Il caso-Navalny
Forse perché chi ci ha provato è stato imprigionato, come l’attivista Vladimir Navalnyi, che il 22 marzo è stato condannato ad altri 9 anni di carcere duro al termine di un processo che lo vedeva imputato per frode e diffamazione. «Sì, alcuni vanno in prigione, ma la maggioranza delle voci dell’opposizione viene comprata col denaro e messa a tacere con la minaccia di ritorsioni. La tragedia di Navalny è un’eccezione in termini di opposizione; la maggior parte decide di lasciar perdere. Se sia poi una reale opposizione anche quella di Navalny è difficile da capire: è famoso per la sua lotta alla corruzione, per il suo desiderio di far cadere Putin, ma il suo programma politico per la Russia non è per niente noto».
Il clima di limitazione delle libertà segna tutti i contesti, anche quello cattolico: «Siamo un’esigua minoranza e molto variegata», ma nelle parrocchie si registrano le stesse diversità che attraversano la popolazione russa: «Gli anziani che guardano solo la televisione russa hanno una comprensione molto limitata di ciò che sta succedendo in Ucraina, per cui sostengono completamente il presidente, a meno che abbiano parenti che racconti loro la verità. E anche in quel caso, la etichettano come propaganda di un regime nazista. I russi in generale sono molto bravi a negare la realtà. I più giovani, nati negli anni del governo di Putin, tendono a essere in generale pro-governo. Di solito è l’intellighenzia di mezza età che è contro la guerra».
La nuova legge e le omelie
La legge del 4 marzo, in base alla quale non si può criticare la guerra in pubblico, nei mezzi di informazione non si può usare la parola guerra o sostenere le sanzioni, stende la sua ombra anche sulle omelie: «I parrocchiani ascoltano attentamente ciò che dice il sacerdote e alcuni hanno già detto al proprio parroco che se lo sentiranno parlare di guerra, lo riporteranno alle autorità». La motivazione: «Qui si pensa che la Chiesa debba stare fuori dalla politica e questo è interpretato in senso molto stretto e al prete non viene concesso nemmeno di esprimere il proprio parere, il che è assurdo. È impossibile ignorare la realtà della guerra ma alcuni pensano che il prete debba evitare di parlarne». Incidenti spiacevoli non sono ancora avvenuti: tanti sacerdoti che vengono dall’estero hanno passaporto russo, come l’arcivescovo Pezzi, dice la nostra fonte: «Certo la cittadinanza può essere revocata, ma sulla base di ragioni estremamente serie per farlo. È vero però che i responsabili di alcune delle Congregazioni religiose hanno dei timori per i loro istituti e stanno chiedendo di spostarsi in luoghi più sicuri».
Il ruolo dei vescovi
In ogni caso i vescovi cattolici fin dall’inizio hanno fatto pubblicamente appello per la pace e hanno chiesto l’immediata cessazione dell’azione militare. Potrebbero dire di più? «I leader della Chiesa sono sempre in una posizione difficile, tra due imperativi che rischiano di entrare in contrasto: da un lato quello di rendere testimonianza del Vangelo, nella verità e senza compromessi; dall’altra si è responsabili dell’esistenza della Chiesa e di non rischiare che la parrocchia venga chiusa, il sacerdote espulso, gli edifici confiscati. Ci sono ragioni per essere prudenti e pensare due volte prima di parlare».
La Chiesa ortodossa è in una posizione diversa e le parole di Kirill non sembrano aver preso le distanze dalla guerra. «Il Patriarcato non ha mai detto di sostenere l’azione militare, ma ha parlato di un conflitto nato dallo scontro di visioni del mondo diverse e per certi versi inevitabile. Io penso che il presidente Putin si aspettasse un sostegno molto più energico e univoco. Certo la maggior parte delle persone hanno interpretato le sue parole come un sostegno al leader del Cremlino, ma la maggior parte degli ortodossi qui in Russia non la vede così. Sono molti misurati, secondo quanto è possibile nella loro posizione, ma non è abbastanza. Soprattutto rispetto alla posizione del Santo Padre. Per questo il Patriarca è stato criticato, ma non dai vescovi presenti in Russia».
Critici invece sono stati i sacerdoti e gli attivisti laici. I vescovi che criticano sono all’estero. «Inoltre – racconta ancora la nostra fonte – da segnalare che a sostenere esplicitamente l’operato di Putin in Ucraina c’è anche l’islam». Sulla prospettiva che la Russia possa mai diventare una democrazia liberale di tipo europeo il nostro interlocutore è molto chiaro: «Mi piacerebbe tantissimo, ma a me sembra impossibile. Molti pensano che chi verrà dopo Putin sarà peggio di lui e non mancano i motivi per crederlo».