Si è conclusa a Sharm el-Sheikh la 27ª Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Il documento finale salva l’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi dai livelli pre-industriali, il risultato maggiore della Cop26 di Glasgow l’anno scorso, ma gli impegni per una riduzione davvero significativa delle emissioni di anidride carbonica sono stati rimandati. Da Giuseppe Milano, segretario generale di Greenaccord, un’analisi alla conclusione della Conferenza.
Quale bilancio si può fare di Cop27: più luci o più ombre?
Sebbene si sia giunti alla 27ª edizione, solo dalla Cop21 di Parigi del 2015 si è compreso nitidamente quanto questi vertici internazionali siano importanti e quanto, per l’enorme complessità di questi processi, non si possa parlare, semplicemente o banalmente, di fallimento o successo: sono mosaici dove ogni tessera che si aggiunge è importante. Si rileva con preoccupazione, tuttavia, che questi lenti progressi sono avversati dall’accelerazione dei cambiamenti climatici, con eventi estremi sempre più intensi e frequenti. Questa Cop27, anche per la crisi geopolitica internazionale, non poteva conseguire risultati diversi o più ambiziosi di quelli che ha raggiunto – l’istituzione di un Fondo Loss&Damage – ancor più nella consapevolezza che i Paesi in via di sviluppo sono vittime innocenti del vigente modello economico occidentale che produce da un lato povertà e disuguaglianze e dall’altro emissioni di gas serra sempre più impattanti.
Chi sono stati i veri protagonisti di Cop27?
Gli indiscussi protagonisti di questa Conferenza delle Parti “made in Egitto” sono stati i Paesi in via di sviluppo che hanno ottenuto il già citato Fondo – la cui consistenza e i suoi contributori verranno definiti entro il prossimo anno – e, soprattutto, le lobby fossili che potranno continuare ad avvelenare il pianeta per almeno altri 12 mesi. Le politiche di mitigazione e adattamento non compiono significativi passi in avanti, con solo 33 Paesi su 200 che hanno aumentato le proprie ambizioni di riduzione delle emissioni; come non si raggiunge il traguardo dei 100 miliardi di dollari all’anno da stanziare per l’obiettivo essenziale della decarbonizzazione; come viene rimandata la riforma delle Banche di sviluppo multilaterali. Tra gli “attori non-protagonisti”, dunque, bisogna citare gli Stati Uniti e l’Unione europea che non sono riusciti ad esprimere una leadership autorevole per cercare di ottenere i risultati attesi dalla società civile e dalle numerose organizzazioni non governative internazionali presenti.
Quanto è importante il traguardo raggiunto con l’istituzione di un fondo per il Loss&Damage, a cui attingere per rimediare ai danni e alle perdite causate dal clima nei Paesi in via di sviluppo più vulnerabili?
Il neocolonialismo africano da parte della Cina, come documentano con preoccupazione crescente le sempre più numerose ricerche sul land grabbing, rivela il ruolo potenziale che potrebbe avere il “Continente nero” nella decarbonizzazione globale e nella diffusione delle rinnovabili, nella valorizzazione delle materie rare e nella protezione dei diritti umani spesso violati, con la concreta possibilità di saldare, pertanto, giustizia sociale e giustizia ambientale. La menzione di questo Fondo, in attesa di capire come sarà gestito e su quali risorse potrà disporre, è comunque un risultato storico perché i Paesi del G77, finalmente uniti, impongono la loro voce e ottengono che il diritto alla compensazione dei danni subiti dai cambiamenti climatici negli ultimi anni, di cui sono scarsamente responsabili, assuma dignità politica.
Sul fronte mitigazione, invece, non sono stati fatti passi avanti. È mancato un segnale chiaro sulla riduzione delle emissioni di gas serra?
L’Occidente, fino a oggi, si è distinto più per gli annunci che per le azioni serie. Non basta parlare di Green New Deal, a livello comunitario, se poi non approvi ancora una Direttiva che tuteli una risorsa naturale non rinnovabile come il suolo, dal cui stato di salute e dalla cui integrità può dipendere la capacità di stoccaggio dell’anidride carbonica. I rapporti del Wmo e dell’Unep, pubblicati a poche ore dall’inizio dei lavori di questa Cop27, confermano, infatti, l’aumento ulteriore delle emissioni climalteranti in atmosfera e il rischio concreto che la soglia di sicurezza rappresentata dalla crescita di 1,5°C della temperatura media globale entro la fine del secolo possa essere superata già entro il prossimo decennio, con «disastri climatici» – come li ha chiamati il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres – sempre meno improbabili.
Nel testo finale di una Cop per la prima volta si citano le fonti rinnovabili: è già un buon risultato? O sono ancora passi timidi, visto che si affiancano alle “energie a basse emissioni”?
È sicuramente un risultato positivo, poiché la nostra unica speranza di consegnare un pianeta migliore alle prossime generazioni è nelle rinnovabili e nel loro mix tra mega-impianti off shore, concentrati in alcune aree, e una maglia reticolare di micro-impianti diffusi. Il richiamo alle “energie a basse emissioni” è un invito a utilizzare il gas come vettore per accompagnare la transizione in modo meno traumatico e per lasciarci alle spalle definitivamente il carbone, notevolmente più pericoloso per l’atmosfera. Questa mediazione, pur comprensibile, rischia, però, di allontanare gli obiettivi di sviluppo sostenibile al 2030 e, più in generale, gli investimenti, per esempio sui sistemi di accumulo o le reti di approvvigionamento, che sono assolutamente urgenti.
Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha fatto questa analisi: «Il nostro Pianeta è ancora al pronto soccorso. Dobbiamo ridurre drasticamente le emissioni ora, e questo è un problema che non è stato affrontato. Cop27 si è conclusa con molti compiti e poco tempo». È un’analisi preoccupante, ma realistica?
Le preoccupazioni di Guterres sono assolutamente condivisibili, ma l’Onu ha scelto già che la prossima COP28, a 8 anni dalla Conferenza di Parigi e a quasi gli stessi anni di distanza dal 2030, si celebri a Dubai. Non proprio un Paese, come l’Egitto, che può essere onorato per i risultati raggiunti nel segmento ecologico della decarbonizzazione. L’auspicio per il prossimo futuro, dunque, non è solo che nella Cop15 sulla biodiversità, in programma tra un paio di settimane a Montreal, emergano risultati di tale rilievo da rilanciare la sfida della mitigazione o dell’adattamento ai cambiamenti climatici – a cui comunque la tutela della biodiversità contribuisce – ma anche che il neo presidente del Brasile, Lula, stimoli i suoi omologhi del G20 ad impegnarsi seriamente, contro ogni forma di greenwshing, per la custodia della nostra unica “casa comune”.